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intervista
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16.05.2025

SUPERNOVA SPECIALE: Alissa Jung e Juli Grabenhenrich

di Gianmaria Tammaro

Dall’incontro prima delle riprese di Paternal Leave, in sala in questi giorni con Vision Distribution, all’esperienza dell’esordio alla regia di un lungometraggio (per Alissa Jung) e come attrice protagonista (per Juli Grabenhenrich). E poi la sfida di diventare grandi, l’importanza della fiducia, riconoscersi nell’altro per riconoscere innanzitutto sé stessi. Il lavoro con Luca Marinelli, i mesi in riviera; le ore di prove ogni giorno. L’intervista.

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In un certo senso, Alissa Jung e Juli Grabenhenrich si somigliano. Non fisicamente: una è più alta, scura; l’altra più bassa e bionda. Si somigliano per il modo in cui ti guardano, stanno sedute, per la luce che hanno nello sguardo e per l’attenzione che fanno nello scegliere le parole da dire. Alissa parla in italiano, inglese e tedesco; Juli in tedesco e in inglese. Si cercano con gli occhi, si sostengono a vicenda e, soprattutto, si ascoltano. Più di una volta Alissa chiede a Juli se preferisce che dia la sua risposta in inglese, per permetterle di seguire. E più di una volta Juli, sorridendo, accenna a una parola in italiano. «Io penso», dice.

Alissa e Juli si sono incontrate per caso, grazie al consiglio di un amico della figlia di Alissa. Alissa cercava un’attrice per il suo primo lungometraggio, Paternal Leave: voleva qualcuno coraggioso e onesto. Soprattutto, voleva qualcuno con la stessa età della protagonista, Leo. Ha trovato Juli, che per un momento ha pensato di mollare tutto, di non farcela e di non voler più recitare accanto a Luca Marinelli. Alla fine, però, Juli si è lasciata guidare. Ha deciso di provarci. E ha interpretato meravigliosamente il suo personaggio.

Questa è la storia di un padre e della figlia che non ha mai incontrato, ma è pure la storia di due persone che non si conoscono e che, per tanti motivi diversi, si somigliano (come Alissa e Juli, sì): guardi uno e riconosci l’altra e viceversa. Paternal Leave è al cinema con Vision Distribution ed è – senza esagerare – uno dei film migliori della stagione. Per la forza esplosiva di Juli, per il talento di Luca e per la visione di Alissa.

Com’è stata questa prima volta? Per te, Alissa, si è trattato di un esordio alla regia e per te, Juli, di un esordio come attrice.
Alissa Jung: «In realtà non è stata la mia primissima esperienza come regista, perché ho diretto alcuni cortometraggi. Però è stata la mia esperienza con un lungometraggio. E ho capito che ci vogliono resistenza e convinzione. Un cortometraggio è come una corsa: ti impegni, dai tutto quello che hai e, in relativamente poco tempo, hai finito. Un film, invece, è come una maratona: devi tenere lo stesso ritmo per settimane intere. E quindi ho imparato che le pause sono fondamentali, che serve respirare e che non bisogna avere fretta. Al di là di questo, al di là della necessità di prendere le misure, è stato bellissimo. E non credo che serva dire altro per descrivere questa esperienza».

Juli Grabenhenrich: «All’inizio non posso negare di avere avuto un po’ di paura. Ho detto ad Alissa che non ce la facevo. Anzi, le ho detto che non l’avrei fatto. Alla fine, però, l’ho fatto comunque. Ed è stata indubbiamente una sfida. Ho provato ogni cosa; non mi sono limitata. Ho seguito suggerimenti, intuizioni e punti di vista differenti. E per tutto il tempo ho sperato di farcela. Ho imparato a fare le prove e a vivere il set».

Alissa, come hai trovato Juli?
AJ: «Abbiamo fatto tantissimi provini in Germania, e abbiamo incontrato attrici diverse, alcune delle quali con molta esperienza. Juli l’abbiamo trovata per caso, grazie a un ragazzo che aveva fatto uno spettacolo con mia figlia. È stato lui il primo a parlarci di Juli. Io cercavo una quindicenne, volevo un’aderenza assoluta con il personaggio di Leo. E questo perché credo che ci sia una differenza abissale tra l’energia di una, non so, ventenne e l’energia di un’adolescente. E così siamo arrivati a Juli. Che, come ti dicevamo, non aveva mai fatto un provino. Non sapeva nemmeno di dover studiare la scena. Ci siamo incontrati varie volte. E lei, come ti ha raccontato, a un certo punto mi ha detto di non farcela, di voler mollare, di non essere la persona adatta».

E tu che cosa hai fatto?
AJ: «Io ho insistito. Le ho detto di incontrarci di nuovo, solo un’ultima volta, e alla fine siamo andati avanti. Ho affittato una stanza e ho cominciato a fare le prove. Ho invitato anche Luca (Marinelli, ndr). Volevo capire».

Che cosa?
AJ: «Volevo capire se Juli era davvero la persona che stavo cercando. Aveva il coraggio e l’onestà di cui la storia aveva bisogno, e questo era evidente. Ma non sapevo se fosse pronta a farsi carico di un film intero. A 15 anni devi trovare la forza per stare per tre mesi su un set, per lavorare ogni giorno e per convivere con un gruppo di persone che non conosci ma di cui ti devi fidare. E lei, questa forza, ha dimostrato di averla».

Che cosa ti ha incuriosito, in particolare, di questa storia?
JG: «Innanzitutto, quando ho fatto il provino, avevo la stessa età di Leo, del mio personaggio. Ed è un’età particolare, dove ci sono costantemente degli alti e dei bassi – e anche questo era un elemento in comune con Leo. A volte, tutto ci sembra incredibilmente bello e ci sentiamo come la persona più felice del mondo; altre volte, invece, nel giro di dieci minuti, tutto diventa difficile e proviamo una rabbia sconfinata. Ed è questo che ho trovato interessante e che volevo esplorare. Penso che Leo senta le emozioni in modo quasi estremo, e forse lo stesso vale per Paolo (il personaggio interpretato da Luca Marinelli, ndr)».

Com’è stato lavorare con Luca?
JG: «Stupendo. Siamo diventati rapidamente una squadra. Ci siamo compensati a vicenda, in un certo senso. Lui è un attore meraviglioso, con una grande esperienza; io, invece, non ho così tanta esperienza...»

AJ: «...ma anche tu sei una bravissima attrice!»

JG: «(ride, ndr) Grazie. Ma comunque è stato incredibile, ecco. È questo quello che volevo dire».

Avete provato a lungo prima di iniziare le riprese?

AJ: «Più o meno per tre settimane e mezzo. Ci siamo incontrati anche con gli altri attori; io, Luca e Juli però abbiamo provato quasi ogni giorno, per almeno un’ora. Era importante trovare non solo il tono delle battute, ma anche la voce del corpo».

Che cos’è “la voce del corpo”?
AJ: «Il modo in cui si cammina, in cui si sta in scena; i gesti che si fanno. Abbiamo fatto tante prove, anche dei giochi. Per esplorare la rabbia, per esempio. Sia Paolo che Leo provano una rabbia incredibile. Ma questo è servito soprattutto per mettere a loro agio Juli e Luca e per creare una dinamica positiva, reale, tra di loro».

In che cosa doveva consistere questa dinamica?
AJ: «In una sorta di equilibrio: Luca, dalla sua, ha esperienza; Juli, invece, ha l’onestà e l’energia della sua età. Dovevano venirsi incontro, contaminarsi a vicenda».

Juli, pensi di essere cambiata dopo questa esperienza?
JG: «Assolutamente sì. E questo soprattutto per un motivo».

Quale?
JG: «Sono in un’età in cui si cambia molto, in cui non c’è niente, o quasi niente, di definito o di definitivo. Quindi questa esperienza ha avuto un peso, sì, ma non è stato l’unico motivo per cui sono cresciuta».

In che modo descriveresti Alissa come regista?
JG: «Mi hanno già fatto questa domanda ieri… E penso che lei sia una bravissima regista».

Perché?
JG: «Perché non vede solamente il progetto o il film; vede gli attori e le altre persone che la circondano, e le ascolta. Ed è pronta ad adeguarsi. Ho la sensazione che alcuni registi siano troppo presi dalla sceneggiatura o dalla loro idea, e finiscano per perdere di vista la realtà».

E invece tu, Alissa, in che modo descriveresti Juli come attrice?
AJ: «Come ho già detto, Juli ha due incredibili forze dentro di sé. La prima è il coraggio: è pronta ad andare ovunque, anche quando il terreno da percorrere diventa più difficile e instabile. La seconda, invece, è l’onestà: non direbbe mai qualcosa che in cui non crede. E per me sono due elementi fondamentali, soprattutto l’onestà. La mia speranza è che riesca a custodire queste due forze, a tenerle strette a sé, e non solo come attrice ma come persona. E poi c’è un’altra cosa, che non è assolutamente secondaria rispetto alle prime due».

Quale?
AJ: «Juli è incredibilmente intelligente. E non solo per la sua età. In generale. Ha capito rapidamente il suo personaggio e ha trovato subito la direzione giusta da seguire per immergersi nelle sue emozioni».

Juli, in che modo ti sei preparata? Hai visto qualcosa – serie o film – prima di iniziare le riprese?
JG: «Sì. Alissa mi ha mandato diverse cose da recuperare. Innanzitutto mi ha mandato alcuni documentari sul rapporto tra padri e figli, e tra questi ce n’era uno su un uomo che ritrova suo padre in India, che lo incontra e che passa del tempo insieme a lui con la massima tranquillità, senza essere minimamente arrabbiato. E non ti nascondo che mi ha lasciata un po’ perplessa. E poi ho visto Aftersun: anche quel film si concentra sulla dinamica tra padre e figlia. Però, in generale, ho provato a non vedere troppe cose».

Perché?

JG: «Più mi avvicinavo a Leo, più cercavo di eliminare qualunque distanza, qualunque differenza, tra finzione e realtà; volevo vivere fino in fondo il mio personaggio e non vederlo solo come un ruolo. Ora è diverso; ora, chiaramente, vedo Leo e Paternal Leave con altri occhi. Ma in quel momento ho preferito fare così».

Come hai reagito la prima volta che hai visto Paternal Leave?
JG: «È stato... strano? Immagino che sia sempre piuttosto strano rivedersi. Ma io non sapevo che cosa pensare, in quel momento. Sono veramente felice di aver potuto rivedere Paternal Leave sei, sette volte. Perché ogni volta ho visto qualcosa di più della storia e meno di me stessa. E quindi l’ho potuto guardare da una prospettiva diversa».

Alissa, che tipo di responsabilità è quella della regista?
AJ: «C’è una responsabilità verso la storia. Perché è fondamentale raccontarla in modo giusto e onesto, soprattutto quando si parla di temi come questo. E io volevo rendere giustizia a tutti i figli che sono cresciuti senza un genitore e a tutti i genitori che sono stati costretti ad abbandonare i loro figli; quindi, più in generale, volevo rendere giustizia agli esseri umani che avrebbero potuto rivedersi in questo film. E poi c’è una responsabilità verso le persone che hanno lavorato con me, che ho cercato in tutti i modi di mettere a loro agio sul set. Un regista è un po’ come il capitano di una nave. E non puoi limitarti a urlare, pensando alla sopravvivenza. Volevo creare un gruppo coeso, pronto a intervenire. Tutti sono importanti. Non ci sono compiti più o meno piccoli. E pensandola così, pensandola in questo modo, è più facile costruire un legame di fiducia. E quando c’è la fiducia, non serve urlare per farsi seguire».

Che differenza c’è tra la solitudine dell’attore e la solitudine del regista?
AJ: «Penso che un regista sia più solo di un attore. L’attore non è mai veramente solo. Un attore ha quasi sempre altri attori intorno a sé. Da regista, a un certo punto, devi confrontarti con ciò che c’è da fare, perché sei la persona che guida. E quella sì che è una sfida. Io, però, non mi sono mai sentita sola. Avevo intorno a me un gruppo fantastico».

Juli, che cosa hai pensato del tuo personaggio la prima volta che hai letto il copione?
JG: «La prima volta che ho letto il copione l’ho fatto con mio padre. E sono stata contenta di scoprire che Leo riesce a farsi degli amici, anche con altri ragazzi, e che non c’era questo appiattimento romantico, che vuole per forza adolescenti innamorati di altri adolescenti. Si può essere amici, e sono stata davvero felice che Alissa abbia preso in considerazione questa possibilità. E poi, riflettendo sul mio personaggio, sui suoi cambiamenti umorali, ho provato con mio padre a disegnarli, a immaginarli, proprio per avvicinarmi il più possibile a lei».

Che tipo di rapporto ti unisce a tuo padre?
JG: «Uno molto, molto buono. Mio padre è una persona estremamente intelligente. E ho un ottimo rapporto anche con mia madre e con i miei quattro fratelli».

Dopo l’esperienza di Paternal Leave, pensi di continuare a recitare?
JG: «Non sto pensando di fare l’attrice per lavoro, no. Non in questo momento, almeno. Non è il mio obiettivo principale. Però mi piacerebbe fare altre esperienze di questo tipo. Vedo i personaggi come delle sfide, come una possibilità per mettermi alla prova. Se ci sono delle persone gentili e dei bei progetti, perché no? (ride, ndr)»

Come ti sei sentita la sera prima della première di Paternal Leave?
JG: «Ho provato qualcosa di estremamente simile a quello che avevo già provato il primo giorno di riprese. E questo perché non sapevo che cosa aspettarmi. Non avendo mai vissuto un’esperienza del genere, non avevo nemmeno dei riferimenti con cui fare dei paragoni. Mi sono limitata a vivere l’attimo, ecco».

Credete che ci sia un momento preciso in cui si abbandona la propria infanzia e si diventa adulti?
AJ: «Personalmente penso che sia diverso per ogni persona. Non c’è un unico momento. Di solito, succede tra i sedici e i ventuno, forse anche ventitré, anni. Ma ci sono delle eccezioni. Ci sono delle persone che diventano adulte molto prima, perché vivono delle esperienze profonde. E ci sono delle persone, invece, che diventano adulte molto più avanti. Forse perché, come Paolo nel nostro film, fuggono da qualcosa. Io ho avuto il mio primo figlio a 18 anni, e quindi sono diventata adulta a 18 anni».

JG: «Io non sono un’adulta, no. (ride, ndr) Credo però che alcune volte ci siano delle cose che vengono verso di te, che ti cercano e da cui devi lasciarti avvicinare. La tua reazione, il modo in cui vivi e gestisci queste cose, dice se sei un adulto oppure no».

AJ: «Sai, questa è una domanda che mia figlia faceva sempre a mia nipote. Quando aveva 18 anni le chiedeva: secondo te sono un’adulta? E mia nipote le rispondeva: ora sei più un adulto giovane.Poi, più avanti, le ha detto: ora sei un giovane adulto. Insomma, si tratta anche di questo: di una questione di punti di vista».

Foto di copertina di Anna Faragona.