di Gianmaria Tammaro
La recitazione come casa, la timidezza dell’infanzia, la voglia di fare parte di qualcosa di più grande; l’idea romantica di gruppo e di famiglia; il set come spazio in cui conoscersi e ritrovarsi. E poi le esperienze di DOC e di Minimarket, il desiderio costante di imparare e di mettersi alla prova. L’importanza di vedersi attraverso gli occhi degli altri, per capire e offrirsi completamente alla visione di un regista o di uno sceneggiatore. L’intervista.

Da bambina, Lem Teku era estremamente timida. Non era paura, la sua. Era qualcos’altro. Quando ci pensa, dice che forse si trattava di voglia di ascoltare. Le piaceva stare a sentire il punto di vista degli altri. Voleva capire, imparare. Crescendo, è cambiata. Se alle medie ha cominciato a rispondere ai professori e ai compagni per ribadire le sue idee, al liceo è diventata una persona completamente differente. Più estroversa, sempre pronta a partecipare. Nella recitazione, racconta, ha trovato una casa. Quando le chiedo di descrivermela, mi spiega che è un posto dove vuole sempre tornare, a prescindere da qualunque altra cosa. A prescindere dai problemi, dalle ansie e dalle incertezze.
Tra il set di DOC, il primo dove ha lavorato, e quello di Minimarket, dal 26 dicembre su Raiplay con la prima parte, ha capito come fare per affidarsi ai registi e agli sceneggiatori. Dice che vedersi con lo sguardo di qualcun altro è una grossa opportunità perché ti permette di conoscerti meglio, di trovare una distanza tra quello che vuoi essere e quello che devi essere. Non crede che la recitazione abbia sempre un potere terapeutico. Può succedere, certo. Ma nella recitazione lei trova soprattutto la possibilità di essere altro, di scoprire e di soddisfare, anche se in minima parte, la propria curiosità.

Perché hai deciso di fare l’attrice?
«Da piccola ho sempre avuto una certa passione per la musica e, più in generale, per l’arte. L’ho sempre vista come una cosa abbastanza lontana da me e dal posto dove vivevo. Poi crescendo, sai, ho sentito come una necessità».
Che tipo di necessità?
«La necessità, se vuoi, di trovare una casa, di sentirmi finalmente nel posto giusto. E la recitazione, in modo un po’ naturale, è diventata casa. Ricordo che a un certo punto mi è capitato di leggere l’annuncio di questa scuola di recitazione. E senza nessuna grande aspettativa ho mandato la mia domanda».
Che cos’è successo a quel punto?
«Mi hanno ricontattato. Per il provino, bisognava leggere un monologo di Ragazze interrotte».
Com’è andata?
«Sono scoppiata a piangere. (ride, ndr) Però ti dico: ho notato anche un’altra cosa, e cioè che finalmente stavo bene. Da quel momento, ho cominciato a studiare. Volevo capire se stavo bene per puro caso o perché la recitazione, effettivamente, faceva parte di me. Da allora non mi sono mai fermata. Dopo gli studi, ho iniziato a lavorare. E con il primo set, con DOC, ho avuto la conferma definitiva: ero a casa».
Che cosa ricordi, nello specifico, del primo giorno sul set di DOC?
«Ricordo di aver mandato un messaggio alle mie amiche più care, che per me sono come sorelle».
Che cosa avevi scritto?
«“Oggi sono veramente felice”. Era stata la bambina che aveva sempre guardato l’arte con gli occhi a cuoricino a scriverlo».
Perché avevi sempre visto l’arte come una cosa lontana da te?
«C’entra molto il posto dove cresci, secondo me. Il contesto in cui, volente o nolente, finisci per formarti. L’arte ti sembra una cosa irraggiungibile perché sei educata a pensare che fare l’attrice o essere una cantante siano sogni impossibili. E quindi non ci provi nemmeno».
Che cosa fa la differenza?
«L’ingenuità dei bambini. La voglia di provarci a ogni costo. Ecco, quella cosa, per fortuna, non mi è mai passata».
Com’eri da bambina?
«Ero molto timida. Ero la classica bambina che ascoltava tantissimo e parlava poco. Ma veramente poco. Mi ricordo che alle elementari avevo buoni voti in tutte le materie e in condotta sufficiente».
Perché?
«Per questo motivo: perché rimanevo molto sulle mie. Le maestre volevano che parlassi di più. “La bambina non socializza”, scrivevano. Ma io ero timida».
E i tuoi genitori che cosa dicevano?
«Mio padre, credimi, non riusciva a capacitarsene. A casa non la smettevo mai di parlare; a scuola, invece, ero una persona completamente diversa».
Secondo te perché?
«Non lo so. Non credo che fosse vera e propria paura; era qualcos’altro. Ascoltavo, ecco cosa. Ascoltavo sempre. Ascoltavo così tanto che non avevo bisogno di studiare: mi ricordavo tutto quello che veniva detto in classe. Studiavo solo per i compiti scritti».
Alle medie com’è andata?
«C’è stato uno scatto. Cominciavo a espormi, a rispondere ai professori, a dire la mia, a esprimermi. Alle superiori, invece, parlavo troppo. (ride, ndr) Non so dirti che cosa sia successo. Da bambina ero una perfezionista; mi piaceva fare le cose per bene, e l’ansia di sbagliare mi bloccava. E poi non vedevo proprio il senso di parlare. Perché mi piaceva ascoltare. Dell’infanzia ho dei ricordi più vividi rispetto, paradossalmente, al liceo».
Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«Mi ricordo quando, da piccola, mi portavano al prescuola, intorno alle 7 di mattina, e rimanevo da sola con quest’altro bambino, Andrea. Io non dicevo niente. Mi limitavo a fissarlo. Le maestre, quelle che si occupavano del prescuola e del doposcuola, provavano a farci interagire, a farci colorare insieme, ma niente. E non era perché non volessi. Eravamo da soli e mi sentivo in difficoltà. Quando arrivavano gli altri bambini, mi aprivo un po' di più».
Siete diventati amici, tu e Andrea?
«Alla fine dei cinque anni, sì. (ride, ndr) Grazie alla pazienza del povero Andrea».
DOC, mi dicevi, è stato il tuo primo lavoro. Tra le aspettative che si hanno durante lo studio e la realtà del set che differenze ci sono?
«Il set è pieno di interruzioni; ci sono tantissime persone. Non ci siete solo tu e l’attore con cui hai la scena. Però è importante confrontarsi anche con gli altri, riconoscere il percorso, i sacrifici e la volontà di tutti quelli che lavorano su un set. L’idea che ci siano queste persone intenzionate a seguire la stessa direzione per creare qualcosa di nuovo mi è sempre sembrata estremamente romantica».
Perché?
«Perché non c’è solo il sogno dell’attore; c’è il sogno di chi cura i costumi, il trucco, le scenografie. Con una consapevolezza del genere, andare sul set diventa più bello. La grande differenza, tra prima e dopo, tra studio e set, sta qui: dall’allenamento, dall’aspirazione per qualcosa, passi alla realtà; ed è una realtà in cui, se sei fortunato, puoi trovare una famiglia. Non sei più solo, insomma, con i tuoi sogni».
Rispetto al mondo esterno, diventa difficile conservare e proteggere questa idea?
«Sì, è difficile. A volte, anzi, molto difficile. Ci si deve sempre confrontare con i giudizi degli altri. Prima, durante e alla fine di un progetto. Proteggere questa idea è, credimi, complicato. Io ho cominciato relativamente tardi, però sono davvero contenta delle persone che ho intorno: la mia agente, il mio ufficio stampa; il mio acting coach. C’è un impegno costante. Io sono perdutamente innamorata del mio lavoro».
Tra il set di DOC e il set di Minimarket che cosa credi che sia cambiato?
«Alcune cose, come la paura prima dell’inizio delle riprese e i dubbi che ti travolgono, restano le stesse. Ma è anche vero che oggi sono più coraggiosa e più pronta a buttarmi a capofitto nel lavoro. E facendo così, finisco per godermela di più. Anche perché non è detto che vada sempre nello stesso modo. È una fortuna fare il lavoro che si ama; è soprattutto una fortuna scoprire qual è, il lavoro che si ama».
Nel coraggio che aumenta, c’è anche la possibilità di poter rifiutare un ruolo?
«È un ragionamento che ogni tanto faccio. Io sono del parere che sia importante esplorare tante cose, senza fossilizzarsi. Quando leggo delle cose e non mi colpiscono subito, ci ritorno, provo a trovare un’altra prospettiva. Proprio come persona tendo a essere curiosa nei confronti di quello che non conosco. Però non è mai detto. Può succedere di tutto. Io sono abbastanza istintiva, quindi potrei cambiare idea di colpo. Forse è presto per dire un no, ma sono anche consapevole della mia spontaneità».
Ti capita mai di provare invidia per gli altri?
«Questo è un mondo dove si sente molto la competizione e dove si avverte una certa invidia diffusa. Io però non sono cresciuta così. Mi ricordo che la nonna di una mia amica ripeteva sempre una frase; diceva: se una cosa è destinata a te arriva. È chiaro che ogni volta, prima di un provino, ci credi, investi tutta te stessa e la tua passione. Ma è importante anche saper vedere le cose da un’altra prospettiva».
Quale?
«Mi capita di vedere le serie e i film dove non sono stata presa. E penso sempre la stessa cosa: quanto bene ci sta questa attrice; hanno fatto bene a sceglierla. E il mio non è buonismo o pressapochismo. Il dispiacere c’è, è reale. Però serve avere una visione più ampia, lo ripeto. Questa consapevolezza, alla fine, ti sprona: vuol dire che ci sono dei ruoli per te, che ti aspettano. L’invidia è un grande spreco di energie».
Qual era la tua vita prima della recitazione?
«Lavoravo nello studio di un commercialista».
Che cosa rimane di quella vita?
«Sicuramente l’impegno. Ho sempre provato a imparare quello che non conoscevo. Non mi sono mai fermata o fatta fermare. Volevo fare bene il mio lavoro, ecco. E poi ho conosciuto tante persone e tante storie. Uno non ci pensa mai, ma in uno studio del genere puoi entrare in contatto con mondi differenti: da una parte chi guadagna dieci milioni all’anno, dall’altra la signora che ha una bancarella e che fatica ogni giorno. I commercialisti conoscono una marea di persone. Ovviamente, e non te lo nascondo, l’ho anche odiato come lavoro».
Recitare, mi hai detto, significa essere a casa. Come la descriveresti questa casa?
«Quando ho cominciato a fare l’attrice, mi sono sentita nel mio elemento. Prima, altrove, mi sono sempre sentita fuori posto. Avevo bisogno di qualcosa, ma non sapevo di cosa. Recitando, ho capito che potevo finalmente costruire la mia casa. Piccola, magari, ma con grandi potenzialità. Casa è dove, al di là di tutto, al di là dei problemi, al di là dei dubbi, vuoi tornare sempre. E questo perché è la tua casa, e a casa tua sei sempre te stessa. E per me la recitazione è esattamente questo».
Che cosa credi di aver capito su te stessa recitando?
«Spesso e volentieri si parla dell’aspetto terapeutico di questo mestiere, e io penso che sia un aspetto del tutto involontario. Non è sano dire che la recitazione abbia solamente questa funzionalità. Recitando, volente o nolente, finisci per conoscerti meglio. E devi imparare a confrontarti con gli altri, a trovare un equilibrio con i registi e gli sceneggiatori. Io non credo di essere cambiata molto, come ti dicevo. Ho imparato a fidarmi di più e a essere pronta a offrirmi completamente a una visione diversa dalla mia».
Che cosa si impara guardandosi con gli occhi degli altri?
«Ad ascoltarsi di più, forse. Senza però dimenticare chi è in scena con te».
Foto di Fabrizio Cestari. Grafica di Manuel Bruno.