di Gianmaria Tammaro
La laurea in giurisprudenza, al decisione di trasferirsi a Parigi, la nuova realtà in Francia; la pagina Instagram come via di fuga, come possibilità di affermarsi, e poi l’incontro con i the Jackal, il lavoro di comica e content creator. Il rapporto con la famiglia, con i suoi genitori e sua sorella, la paura del buio. La voglia di accettarsi di più, riconoscendosi risultati e meriti. E poi il desiderio, sopra ogni cosa, di non essere soltanto “normale”. L’intervista.

Donatella Messina vive a Parigi da quattro anni. All’inizio si è trasferita per lavoro. Oggi, però, ha trovato una dimensione che le piace, in cui si sente a suo agio: nell’anonimato di una città così grande, può muoversi liberamente. Ha iniziato a pubblicare video e post sulla sua pagina Instagram perché sentiva di aver bisogno di qualcosa di suo, qualcosa di diverso. Non le è mai piaciuta la parola “normalità”. Fin da piccola ha sempre provato a distinguersi, a essere differente. E questo pensiero, in qualche modo, le fa coraggio ancora adesso. Collabora con i the Jackal da quasi un anno.
Dice che non si aspettava assolutamente di essere contattata. Anche perché, dopo aver mandato un suo provino alcuni mesi prima, non aveva ricevuto nessuna risposta. Per i suoi genitori è stato un cambiamento abbastanza brusco. Donatella ha studiato giurisprudenza, ha fatto un master alla Luiss. Si è trasferita prima a Roma, lasciando Acerra, poi a Milano. Dopo Milano, è andata a Parigi. Ora come ora, sente di avere bisogno di più sicurezza in sé stessa. Non sa se la sua carriera come content creator e comica andrà bene. Intanto, però, ci vuole provare.

Come sei entrata in contatto con i the Jackal?
«Mi hanno scritto intorno a novembre, l’anno scorso. Io non lo sapevo, ma alcuni di loro mi seguivano già da tempo. Mi hanno proposto di incontrarci, e ho accettato. Però se ti devo dire la verità, io avevo provato a mandare un provino quando, mesi prima, avevano pubblicato un annuncio sui social, dicendo di essere alla ricerca di nuovi volti e creator. E in quell’occasione, ovviamente, non mi si inculò nessuno. (ride, ndr) Poi ci siamo visti, come ti dicevo, e abbiamo iniziato a collaborare. Ho fatto sei mesi di prova, per conoscerci meglio, e adesso stiamo proprio lavorando insieme».
Tu come ti definisci? Stand-up comedian o content creator?
«Non ho ancora una definizione chiara. Forse in questo momento sono più una content creator. Mi piacerebbe, però, crescere anche come comica. Come attrice non lo so, non credo di aver studiato abbastanza, ma non mi do alcun limite. In questo momento, insomma, sono un essere in via di definizione. (ride, ndr) Mi diverto. E si capirà con il tempo quello in cui sono più brava... forse in niente, chi lo sa».
Tu sei di Napoli?
«Sono di Acerra, in realtà».
E ora dove vivi?
«Vivo a Parigi».
Come mai?
«Mi sono trasferita quattro anni fa. Lavoravo in un’azienda, ManoMano; facevo parte del team sales. Prima ancora, però, ho studiato giurisprudenza a Napoli e mi sono trasferita a Roma, dove ho fatto la pratica legale. A un certo punto, ho fatto anche un master alla Luiss... per la gioia dei miei genitori. (ride, ndr) Finita la pratica e finito il master, sono andata a Milano per uno stage, nell’ufficio legale di una multinazionale specializzata nel brokeraggio assicurativo. Non mi piaceva... Cioè, se mi dovevano dare qualcosa da fare, prima si facevano mille croci. Ho sempre fatto fatica a non far vedere quanto mi stessi annoiando».
Da Milano, poi, sei passata a Parigi?
«Prima sono passata dall’ufficio legale a quello commerciale, perché ho pensato che fosse quello il problema, no? Il legale. In realtà, è proprio ‘a fatica ca nun m piace... (ride, ndr) Scherzi a parte, sono passata al commerciale e ho cambiato diverse aziende. Una start-up, una un po’ strana...»
In che senso strana?
«Prima ti promettono una cosa, e poi ti fanno fare tutt’altro. Quindi sono passata a Too Good To Go, che è anche a Napoli. E alla fine sono arrivata a Parigi per ManoMano. Ci sono da quattro anni, come ti dicevo. Ho preso una pausa, un anno fa, per concentrarmi sulla mia pagina e sui miei progetti. E poi mi hanno chiamato i the Jackal».
Quindi hai lasciato il lavoro?
«Sì, per me quella carriera lì è in stand-by... Stand-by per me significa che se va tutto male, se non ci riesco, torno a fare quello che facevo prima (ride, ndr)».
Ma dici che loro saranno pronti a riaverti?
«Guarda che hanno perso una grande venditrice!»
Lo parli bene, il francese?
«No, non lo parlo bene. Lavoravo nel team italiano. Quando mi sono trasferita, non avevo bisogno del francese. Mi bastavano l’italiano e l’inglese. Non ho amici francesi, figurati... Impari la lingua se ti fidanzi con un francese, e in quel caso lo impari velocemente».
E con la terapia, di cui mi parlavi prima, come fai?
«Ma quella è in italiano. È online. L’ho ripresa dopo due anni, tra l’altro».
I tuoi genitori come hanno preso la tua decisione di lasciare il lavoro?
Donatella non risponde; si limita a scuotere la testa sorridendo.
Vi parlate, però.
«Sì, certo. Ci parliamo. Forse solo quando aprirò un account su OnlyFans mio padre smetterà di rispondermi... (ride, ndr) Ma per ora tutto bene, mi parla ancora. Quando ho cambiato da legale a commerciale, sono rimasti un po’ storditi. Perché avevo studiato giurisprudenza, mi ero specializzata, eccetera. Però va bene, l’hanno accettato. Quando ho detto a mio padre, che chiamo babbo, che i the Jackal mi avevano contattato, lui ha capito che mi aveva chiamato la Jaguar. E io, a quel punto, ho dovuto spezzare il suo cuoricino... Mio padre, ferroviere in pensione, pensa che solo lavorare per le Ferrovie dello Stato vada bene; il resto è un fallimento».
Lui che cosa faceva?
«Il macchinista».
Tu non hai pensato di provare a seguire la sua strada?
«No, per carità. No. Se facevo il capotreno... già i treni fanno schifo, fanno ritardo... Se io facevo il capotreno, Salvini era salvo».
Alla fine tuo padre ha capito chi sono i the Jackal?
«Più mamma, in realtà. A babbo ho fatto recuperare un po’ di cose. Alla fine, però, si sono arresi. Ma è anche comprensibile, no? Io ho 32 anni, non mi metto a sbattere i piedi per terra. I genitori vogliono solo il tuo bene, la tua stabilità. Si sono fidati di me».
E ora che pensano?
«Hanno sicuramente notato la serietà della cosa. Lavoro con i ragazzi da quasi un anno, e hanno visto l’impegno che ci sto mettendo. Secondo me, devi far capire che non stai andando allo sbaraglio, che non sei un’ingenua, che sai cosa stai facendo e quali rischi ti stai assumendo. Poi dipende da te».
Tu sei figlia unica?
«No, no. Ho una sorella».
Più grande o più piccola?
«Più grande».
E con lei, invece, che rapporto hai?
«Lei è la mia prima supporter... supporter? Sì, supporter. Abbiamo un rapporto bellissimo. Siamo molto unite, molto vicine».
Lei li conosceva i the Jackal?
«Sì, sì. Figurati. Da quando ho iniziato, mi ha sempre sostenuto. Anche lei ha una vena creativa: per un periodo ha fatto la speaker in una radio locale. Quindi sì, lei è supporter. Siamo noi contro di loro… (ride, ndr) No, no! Sto scherzando, sto scherzando».
Che bambina sei stata?
«Io non mi ricordo assolutamente niente del mio passato. Non so se è perché mi sono bruciata i neuroni o boh... Quando chiedo a mia madre, lei mi dice sempre la stessa cosa».
Cosa?
«Che ero una bambina normale. Ora, non so se è stata lei a non essere abbastanza attenta, se non ha notato il mio genio… Oppure, forse, sono stata effettivamente una bambina normale».
Cambio domanda. Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«Oddio, la prima cosa che mi viene in mente non è proprio bella...»
Cambio di nuovo domanda: c’è un ricordo a cui tieni particolarmente?
«Sembrerà stupido, e forse lo è, ma mi ricordo di quando, da bambina, mi feci mettere in punizione a scuola perché non mi era mai successo prima. Ero in classe, mi stavo annoiando. E allora ho preso un pastello e l’ho spezzato in modo plateale. Proprio così, sulla gamba... Pah! E la maestra mi ha messo in castigo dietro la lavagna. Stavo in un angolo della classe, da sola, e mi sentivo felicissima. Mi ricordo che indossavo questo anello con un’ape. Forse sai, l’ho fatto per quello che dice sempre mia madre, no? Ero una bambina normale, ma io non volevo essere normale. Avevo paura della normalità. Volevo essere me stessa. Volevo fare quello che mi piaceva, quello che mi andava. Anche farmi mettere in castigo, nel caso».
E perché tieni particolarmente a questo ricordo?
«Perché la normalità mi spaventa, te lo ripeto. Proprio il concetto. Tutti siamo diversi, tutti abbiamo le nostre differenze. Ma questa idea di dover assomigliare a qualcun altro, di dover essere “normale” perché qualcuno dice che è importante essere normali, che è giusto essere normali, no, non mi piace. Anche per questo, quattro anni fa ho deciso di aprire la mia pagina su Instagram».
Che cosa cercavi?
«Non avevo un obiettivo preciso; sentivo solo di doverlo fare. All’inizio, la mia pagina parlava di tutt’altro. Parlava di persone che hanno deciso di cambiare vita... Sai, no? Quelli che lasciano tutto, che si trasferiscono dall’altra parte del mondo e che dicono di essere felici. Quelle cose lì. Quelle storie. Intervistavo persone che avevano avuto esperienze simili. Ecco, oggi la pagina è cambiata tantissimo. Oggi ci sono io che faccio video, che scherzo, che faccio battute. Io avevo bisogno di qualcosa di diverso nella mia giornata. Non potevo ripetere sempre la stessa routine. Con la mia pagina ero libera, perché era uno spazio mio; non dovevo chiedere niente a nessuno».
Quanto era importante avere uno spazio del genere?
«Molto importante. Era la mia isola felice. Nel lavoro mi impegnavo pochissimo, lo ammetto. Facevo quello che dovevo fare, e non aspettavo altro che potermi ritagliare un momento per scrivere la nuova battuta, il nuovo video, per potermi esprimere. Sulla mia pagina mi sentivo, e mi sento ancora, libera. Però non mettevo niente in secondo piano. Le amicizie, per me, sono sempre state fondamentali. Ma in quel periodo ho riscoperto anche il tempo con me stessa. La pagina mi ha permesso di ritrovarmi, di capire una parte di me che, fino ad allora, non avevo mai preso seriamente in considerazione».
E questa esposizione non ti faceva paura?
«Certo che mi faceva paura; non è facile convivere con i giudizi degli altri. Su questo, probabilmente, sono stata incosciente. Ma in questa incoscienza mi sono finalmente avvicinata a quello che cercavo e che volevo essere».
Non c’è il rischio, poi, di essere costantemente confusi con il personaggio, con la maschera, che ci creiamo online?
«Non mi è capitato, no. Purtroppo o per fortuna il mio non è un personaggio. Per carità, alcune cose sono estremizzate: se mi segui su Instagram sembro sicura di me, sempre con la battuta pronta e mille idee. Allo stesso tempo però ci sono anche le mie imperfezioni. Chi mi vede, chi mi incontra, non credo che noti una differenza. Sui social c’è un calcolo; certi atteggiamenti vengono amplificati. Ma alla fine, sotto sotto, sono sempre io».
Come sei nella realtà, lontana da Instagram?
«Sono molto più insicura, e non ho sempre la battuta pronta. Non sono una da botta e risposta. Ma è normale. I social non sono la nostra vita, sono una parte della nostra vita che viene inevitabilmente esagerata. Però non ho mai fatto cose strane, che non condividevo. Ci sono sempre io. Estremizzata, certo. Ma non diversa».
Stai pensando di tornare in Italia?
«Sì, ci sto pensando, soprattutto per la mia collaborazione con i the Jackal. Ma non so come andrà a finire... Capito? Non so se sarò l’artista maledetta con la sua casa parigina, dove scrive e si tormenta, e che poi torna a Napoli per lavorare. Non ti so dire bene come mi organizzerò per il futuro. Sicuramente ora sono molto più felice quando devo rientrare».
A Parigi ti trovi bene? Anche senza amici francesi?
«Non ho amici francesi, ma ho tanti amici italiani e di altre nazionalità. Quello che mi piace è che, dopo quattro anni, ho trovato una mia dimensione. Forse non la dimensione definitiva in cui vivere, però è una dimensione che conosco. Per carità: Parigi non è un posto facile, per la mia esperienza; devi avere tanta fortuna. Resta una città profondamente francese. Londra, per dirti, è più internazionale. Parigi mantiene la sua natura in ogni aspetto, di continuo. Ho costruito lentamente la mia realtà. E quindi le amicizie, i rapporti, le relazioni. E quello che mi piace di Parigi è che è una città di cultura; è una città che offre continuamente eventi e novità. Se non partecipi, senti di rimanere indietro. E poi mi piace il fatto di sentirmi quasi invisibile, qui».
In che senso?
«Ho la mia pagina, le mie cose, ma resto una persona come tante; posso uscire e nessuno sa chi sono o cosa faccio. In una città come questa, sono protetta da un certo anonimato. È una cosa che mi piace, che mi fa sentire libera. E lo so che sentirsi dire “sei invisibile” non è sempre bello, ma in questo caso ha un significato diverso, più profondo».
Non ti sembra un controsenso rispetto alla tua decisione di lavorare online, sui social, dove invece sei molto esposta?
«Per alcune cose sì, lo è. Però è proprio questa contraddizione a rendere ancora più evidente la necessità che sento di potermi muovere liberamente tra le persone. Sapere che puoi andare in giro, nonostante tutto, è un pensiero liberatorio. Non mi sento giudicata quando vado in giro. Quella dimensione di cui ti parlavo prima, quella che mi sono costruita, rimane comunque distante da me; non avverto nessuna pressione».
Non ti spaventa questa idea di non appartenere completamente alla realtà in cui vivi?
«Sì, mi spaventa. Però mi rendo anche conto che dipende molto da me. Sono io ad avere il controllo di questa cosa. Posso partecipare di più, essere più presente, stringere amicizie con altre persone, e sentirmi più integrata. Per ora, sto bene così. Mi basta quello che sono e che faccio, e forse in parte il merito è anche della mia pagina, del mio lavoro, della collaborazione con i the Jackal. E poi il mio pubblico, in questo momento, è fondamentalmente italiano».
Qual è quella cosa che proprio non ti piace di Parigi?
«Ti fa sentire sola. E lo so, anche questo suona come un controsenso. Però a volte può succedere che nessuno ti rivolga la parola. Vai in un bar e sei da sola con te stessa. Vai a fare la spesa e non c’è lo sconosciuto con cui scambiare una parola. Poi per carità, ci sono delle eccezioni. Tipo vai al ristorante e trovi il signore francese che beve vino e fuma e che si mette a parlare. Forse è una cosa che riguarda di più le nuove generazioni, sai? Sono più chiuse. Quelle vecchie, quelle più grandi, sono più gentili. E poi Parigi è veramente costosa, e alcuni francesi fanno una fatica enorme a parlare in inglese; magari lo sanno pure eh, però non ce la fanno proprio a venirti incontro. O parli come loro, con la pronuncia perfetta, o fanno finta di non capire».
Prima mi dicevi che l’amicizia, per te, è molto importante. Ecco, come la definiresti?
«L’amicizia è un po’ come un bilancio della persona che sei. Questo, ovviamente, non significa che se hai pochi amici sei per forza ‘na chiavica… Sapere però che ci sono delle persone che mi vogliono bene mi sprona ad andare avanti, perché significa che non solo sto ricevendo affetto ma che lo sto anche restituendo. L’amicizia, per me, è la cosa più importante della vita».
La tua migliore amica o il tuo migliore amico sono sempre gli stessi dal liceo?
«Non ho solo una migliore amica. Ne ho diverse, vengono quasi tutte dal liceo. Però con il tempo, con i vari spostamenti, ce ne sono state altre, che reputo amiche nello stesso modo. Ovviamente non tutti quelli che incontri nella vita possono essere tuoi migliori amici. Se sei abbastanza fortunata, incontri persone con cui condividere la tua quotidianità».
Qual è la cosa che ti fa più ridere?
«Le persone che sanno prendersi per il culo… cioè, in giro. E poi mi piace molto il black humor, con quelle battute che demoliscono un certo moralismo».
Di che cosa hai paura?
«Del buio».
Davvero?
«Sì, davvero. Quando vado a dormire, lascio accesa la luce della cappa in cucina».
Ti sei data una spiegazione?
«Forse un pochino di colpa ce l’ha mia sorella, che quando eravamo bambine, prima di andare a dormire, mi raccontava storie terribili... Ecco, prima ho detto che abbiamo un bellissimo rapporto e ora le do la colpa per la mia paura del buio... Vabbuò, si possono fare tutte e due le cose. Però alla fine non ti so dire perché mi fa così paura, il buio».
Qual è il tuo film preferito di Massimo Troisi?
«Oddio, ho visto tutti i suoi reel su Instagram! (ride, ndr)»
Innanzitutto, ti piace Troisi?
«Sì, certo. Però se ti dicessi che non vedevo altro da bambina ti direi ‘na strunzata... Io guardavo Gossip Girl; Troisi l’ho recuperato dopo, da grande».
Tu però hai qualcosa di Troisi. Proprio come umorismo.
«Secondo me c’è chi insiste molto su questa cosa e chi lo fa senza nemmeno rendersene conto... Chi viene da Napoli vive un po’ con questo spauracchio, no? Deve confrontarsi con i grandi e i grandissimi, e la gente finisce sempre per fare gli stessi paragoni».
Chi è il più divertente tra i the Jackal?
«Sono tutti simpaticissimi! Anzi, ti dirò di più... (Donatella prende un bel respiro profondo, ndr) Nella realtà, sono ancora più simpatici! Però sai, se proprio ti devo dare una risposta, per solidarietà femminile ti dico che la mia preferita è Aurora... ma pure Alfredo mi fa ridere, dai».
Chi scegli tra Aurora e Alfredo?
«Aurora».
Il mondo della comicità è un mondo maschilista?
«Senti, lo so che questo discorso viene fatto sempre e che spesso, molto spesso, viene tacciato di essere la solita lamentela eccetera eccetera... Però è vero».
È vero cosa?
«Che per le donne, nella maggior parte dei casi, è più difficile. Non solo vengono giudicate come comiche, ma vengono giudicate innanzitutto come donne. E quindi qualunque cosa, a cominciare dalle critiche, viene sempre estremizzato. Se sei donna e non fai ridere, sei terribile. Se sei donna e non sai stare sul palco, sei un’improvvisata. Con gli uomini si parla delle battute, si accetta che possano essere comici; con le donne, devi prima di tutto ritagliarti il tuo spazio, difenderlo, e solo dopo puoi essere considerata come una che fa la comica. Che la fa, cioè, seriamente».
Tua madre dice che eri una bambina normale. Al liceo, invece, che adolescente sei stata?
«Ho avuto le mie fasi. Ho avuto la mia fase vrenzola e ho avuto la mia fase emo... che in realtà non è mai passata. Andavo dietro ai ragazzi».
Di che cosa senti di avere bisogno, in questo momento?
«Ho bisogno di più sicurezza in me stessa. Lo so, è una cosa che forse viene con il tempo. Ma ci sono giorni in cui mi sento una chiavica e altri giorni, invece, in cui ho tantissima voglia di fare. Vorrei cominciare a riconoscermi più meriti... E poi oh, pure ‘nu bell gratt e vinc!»
Grafica di Manuel Bruno.