di Gianmaria Tammaro
La decisione di trasferirsi in Giappone a 19 anni, il mondo della moda, le differenze tra i vari paesi. Vivere a Tokyo e imparare a confrontarsi con un’altra cultura e, soprattutto, un’altra idea di convivialità. Il rispetto profondo per il prossimo e i pregiudizi verso gli stranieri. Le differenze tra Giappone e Italia, la possibilità di esprimersi liberamente e la cerimoniosità delle tradizioni. La voglia di fare chiarezza su luoghi comuni, il canale Youtube; il rapporto profondo con la solitudine. L’intervista.

Tra i 19 e i 20 anni, Gloria Yoshino Bellissimo ha deciso di trasferirsi in Giappone. Lo ha fatto per imparare la lingua e perché voleva riconnettersi con una parte di sé stessa: una che, ammette, non era mai riuscita a esprimere fino in fondo. A Tokyo ha dovuto fare i conti con un altro paese, un’altra cultura e nuove responsabilità. Ha cominciato a lavorare. Ancora oggi fa la modella, dividendosi tra Italia e Giappone. Ed è diventata rapidamente adulta. Quando ricorda quel periodo, Yoshino dice che è stato come uno strappo. Dall’oggi al domani, quasi all’improvviso, ha dovuto confrontarsi con una realtà che non conosceva.
Sua madre non ha mai voluto insegnarle il giapponese. Voleva che fosse qualcun altro, qualcuno di preparato, a farlo. Se Yoshino ha deciso di aprire un canale Youtube, è stato per creare un ponte: tra chi la segue, la maggior parte sono italiani, e il paese dove vive; ma anche tra sé stessa e gli altri. In Giappone l’essere soli è quasi una costante. E a volte questo è un ostacolo estremamente difficile da superare. In dieci anni, Yoshino non ha stretto nemmeno un’amicizia con un giapponese. Ha tanti conoscenti, spiega. Ma è veramente complicato rimanere in contatto, parlarsi e andare oltre le barriere della lingua e, soprattutto, della cultura. Per lei, casa è ancora Roma. Del Giappone ama il senso profondo di rispetto e gratitudine. Una cosa che, confessa, la sorprende sempre.

Che mondo è il mondo della moda?
«Per alcuni versi, è un mondo abbastanza pesante. Ci sono ancora dei limiti enormi, degli standard precisi che è difficile riuscire a superare. Quindi, sotto questo punto di vista, si tratta di un mondo molto rigido. Per altri versi, invece, diverse cose stanno cambiando abbastanza velocemente. Pensa alle modelle curvy, alla presenza crescente di modelle afroamericane, e questo succede anche in Giappone, dove la pelle bianca coincide ancora con un canone di bellezza diffuso. Insomma, il mondo della moda è un mondo in evoluzione. C’è ancora tanto da fare. Dipende dal paese di riferimento. In Giappone, come ti dicevo, è una cosa; a Milano è un’altra cosa».
Tu che esperienze hai avuto?
«Ho lavorato un po’ dappertutto. Ho un’agenzia a Tokyo e una a Milano. Ora come ora, lavoro sia in Giappone che in Italia. In passato, ho lavorato a Hong Kong e in Thailandia. E sono tutti mercati diversi, con la loro specificità. Ci sono delle differenze importanti tra Europa e Asia e immagino anche tra Europa e America, dove non ho mai lavorato, e tra America e Asia».
Il mercato giapponese è più o meno chiuso?
«In verità, è il contrario. In Giappone sono più aperti alla diversità. Non per quanto riguarda il colore della pelle, come ti dicevo. Però, se pensiamo ai modelli che lavorano in Giappone, c’è una varietà importante, come lineamenti e come corpi. In Giappone, se vedi una pubblicità, non vedi i tipici modelli perfetti; vedi persone abbastanza comuni. In Giappone, poi, l’altezza non è così importante. Puoi essere anche un metro e sessanta, sessantacinque, e lavorare tranquillamente come modello. In Italia non è lo stesso. A Milano, per dire, devi essere almeno un metro e settantaquattro, settantacinque, se sei una ragazza. C’è una differenza di mercato piuttosto spiccata. E in Giappone, forse, sono più aperti. L’Italia è più selettiva. Basta guardare la quantità di modelli attivi in Italia e la quantità di modelli attivi in Giappone».
Da quanti anni vivi a Tokyo?
«Mi sono trasferita intorno al 2015, quindi ti direi che sono dieci, dieci anni e mezzo. Sono volati. Da una parte, passare i miei vent’anni in Giappone è stato abbastanza scioccante; dall’altra, è stato anche molto formativo, perché ho fatto tante esperienze».
Perché dici che «passare i vent’anni in Giappone è stato scioccante»?
«Mi sono trasferita quando avevo 19 anni, alla vigilia dei 20 anni. Avevo finito da relativamente poco il liceo; avevo messo da parte qualche soldo in Italia. Però iniziare a vivere da sola, con tutte le responsabilità della vita adulta, è stato abbastanza drastico. È stato uno strappo netto, immediato. Per di più in un paese straniero. Ero già stata in Giappone, anni fa, ma non conoscevo la lingua».
No?
«No, e se ho deciso di trasferirmi è stato anche per questo. Mia madre non ha mai voluto insegnarmi il giapponese. Mi ha sempre detto che avrei dovuto farlo per bene, in una scuola, con qualcuno di preparato, non con lei. E così, anziché iscrivermi all’università, ho preferito trasferirmi».
Pensavi di rimanere così tanto in Giappone?
«Onestamente no; all’inizio pensavo di rimanere per un paio di anni, non di più. Ma alla fine sono ancora qui».
Perché tenevi così tanto a imparare il giapponese?
«L’ho sempre vista un po’ come una mia responsabilità. Volevo comprendere di più questo aspetto di me stessa; sentivo di dovermelo. Imparare il giapponese è stato un modo per capire più a fondo chi ero e quella che è la cultura del Giappone. Sì, è vero: sono cresciuta con una madre giapponese. Ma nella mia famiglia c’è sempre stata una prevalenza della parte italiana: abitudini, lingua, tradizioni. Ho sempre avuto una certa curiosità, non te lo nascondo».
Tu dove sei cresciuta?
«A Roma. Nata e cresciuta a Roma».
E che tipo di rapporto hai avuto con tua madre?
«È stata abbastanza giapponese per gli standard italiani, ma nemmeno troppo. (ride, ndr) Parliamo comunque di una donna giapponese che, negli anni Settanta, ha deciso di trasferirsi in Italia. Non è mai stata la tipica giapponese: stringente, severa, insistente. Su alcune cose è sempre stata molto flessibile. Su altre un po’ più rigida. Ma forse “rigida” non è la parola più giusta per descrivere mia madre. Non mi ha mai travolto di attenzioni. Su questo, è stata più distaccata. E va bene. Anche perché c’è sempre stata quando ho avuto bisogno di lei. Ma non ha mai provato a giustificarmi davanti agli insegnanti o agli altri adulti».
Tuo padre, invece, come ha reagito alla tua decisione di andare in Giappone?
«Mio padre è stato abbastanza contento, diciamo così, quando gli ho detto di voler andare in Giappone. È un discorso che abbiamo sempre fatto; non credo di aver sorpreso i miei genitori con la mia scelta».
C’è stato un momento, più o meno facile da rintracciare nella tua memoria, in cui ti sei sentita finalmente a casa in Giappone?
«Ancora non c’è stato, in realtà. Per me casa è ancora l’Italia. Vivo a Tokyo da dieci anni, ci lavoro, ho delle conoscenze. Però non mi viene naturale vederla come casa mia. Quando sono a Roma, invece, mi sento proprio a mio agio. E anche se non ci vivo più, continuo a pensare sempre la stessa cosa quando ci torno».
Che cosa?
«“Sono rientrata”. Roma è il luogo dove è rimasto il mio cuore, e questo non posso negarlo».
Hai mai pensato di tornare in Italia?
«Nì. Da un punto di vista lavorativo, mi piacerebbe ristabilirmi in Italia. Se però penso a quella che è la quotidianità in Italia, ora che sono abituata al Giappone, dove tutto funziona, tutto è pulito, dove non c’è quasi microcriminalità, non sono più tanto sicura. È bello tornare in Italia per brevi periodi, come le vacanze. Forse rimanerci per più tempo, ora, sarebbe abbastanza traumatico. Dovrei abituarmi di nuovo a un’altra realtà. Si tratta di trovare un equilibrio tra la società che ti circonda e, per esempio, i rapporti umani».
Qual è il problema più grande del Giappone?
«L’unica pecca che mi fa dubitare, che mi fa pensare alla possibilità di tornare in Italia, è quanto ancora le persone siano chiuse. Manca la comunicazione. Ci sono tantissimi problemi per questo motivo. I giapponesi fanno una fatica enorme ad aprirsi. Figurati quando non sei una di loro, quando ti sei trasferita da un altro paese. Non sai mai che cosa pensa l’altro. C’è pochissima flessibilità. In Italia è l’esatto opposto, no? E io continuo ad avere una mentalità più occidentale. Dopo dieci anni a Tokyo, questa cosa un po’ la sento. Ogni tanto, mi piacerebbe fare quattro chiacchiere casuali, sincere, anche con qualcuno conosciuto da poco».
Che tipo di considerazione c’è per gli stranieri in Giappone?
«Le cose sono peggiorate molto negli ultimi due, tre anni, con l’ennesimo boom di turismo. Durante il periodo del COVID, si è discusso più volte della possibilità di vietare l’accesso in alcuni ristoranti e locali a chi non parla il giapponese. Sui mezzi pubblici, diversi giapponesi continuano a evitare di sedersi accanto agli stranieri. Non è sempre così, per carità. Ma la xenofobia è uno dei problemi più gravi del Giappone. Anche per questo ho deciso di aprire il mio canale Youtube. Ci sono molti dubbi da parte di chi non è mai stato in Giappone e non sa che cosa aspettarsi. Mi sembra importante dare esempi concreti. L’overtourism ha scioccato i giapponesi. Per molto tempo, il governo ha preferito sostenere il turismo. E questo ha finito per estremizzare alcune parti della società, che ora rispondono male o sono poco rispettosi nei confronti degli stranieri. Sono episodi quotidiani, succedono abbastanza spesso. Sta diventando problematico anche per chi vive in Giappone. Io conosco la cultura, conosco la lingua, ma a volte vengo trattata come una straniera per il modo in cui appaio o in cui mi pongo. Ripeto: non è sempre così. Tokyo, però, ne risente abbastanza visto che il turismo si concentra qui».
A te che cos’è successo nello specifico?
«Ti faccio un esempio banale. Io parlo giapponese, come ti dicevo. Dopo dieci anni l’ho imparato, l’ho studiato e ho anche superato diversi esami, prendendo l’N1, che è la certificazione con il livello più alto. Con l’N1, per intenderci, puoi lavorare ovunque. Ecco, nonostante questo, mi capita di andare in un ristorante e anche se sto parlando in giapponese mi sento rispondere in inglese. E dopo tanti anni, ti fai un paio di domande. Qualcuno su Youtube mi dice che forse le persone lo fanno perché mi vogliono aiutare. Ma non è così. Anche perché, ripeto, parlo in giapponese. E l’inglese con cui mi rispondono, spesso, non è granché».
Aprire un canale Youtube è stata una necessità anche per te, per creare un ponte con gli altri?
«Sì. Prima di aprirlo, ho fatto un po’ di ricerche per capire che cosa ci fosse già. E mi è sembrato che mancasse qualcuno come me, diviso tra Giappone e Italia per la sua storia personale più che per una questione di scelte. E quindi ho pensato che fosse il momento giusto per aprire un canale. Dietro, principalmente, c’è l’intenzione di fare chiarezza su pregiudizi e luoghi comuni diffusi sia in Italia che in Giappone. Chiaramente io mi rivolgo soprattutto a un pubblico italiano. E quella che voglio diffondere è l’idea stessa di quotidianità che c’è qui in Giappone, con la sua cultura e i suoi problemi».
Ti capita di seguire altri canali Youtube e chi vuole fare divulgazione sul Giappone e di rimanere stranita per il modo in cui viene raccontato?
«Mi capita, sì. Quando ho fatto le mie ricerche, ho notato la vena romantica con cui viene raccontato questo paese. Soprattutto, ho notato il modo in cui gli italiani tendono a inquadrare e a interpretare una particolare situazione: lo fanno da italiani, senza cioè provare a mettersi nei panni dell’altro o a capire il punto di vista di chi è del posto. Mi pare che questa cosa, questo passaggio, manchi abbastanza spesso. Insomma, c’è un racconto valido, puntuale, del Giappone, ma quasi sempre sposa solo un certo punto di vista. Io, da italo-giapponese, mi trovo in una posizione privilegiata. A volte, si va sempre verso un estremo. O si critica troppo, senza provare a capire la cultura giapponese, o si romanza troppo».
Come ti chiamano gli amici?
«Io ho un nome per tutti. (ride, ndr) Il mio nome d’arte è Yoshino Belli: mi chiamano così a lavoro, quando faccio la modella. Chi mi conosceva prima del mio trasferimento in Giappone – quindi a scuola, amici di Roma e amici italiani – mi chiama Gloria. In Giappone, invece, ho un altro nome. Che non è la traduzione di Gloria, ma proprio un’altra cosa. Ed è Yòshino. Lo usano tutti i miei familiari giapponesi».
E tua madre, invece, come ti chiama?
«Yòshino. Anche se a volte mi chiama anche Gloria».
C’è un motivo particolare?
«Sai che non lo so? Forse mi chiama Gloria quando vuole farsi sentire e siamo in strada».
La solitudine è qualcosa che ti pesa?
«Qui in Giappone la solitudine, o comunque l’essere soli, è un elemento abbastanza imprescindibile. E un po’ ritorna quel discorso che ti facevo prima, sulla cultura del paese. La lingua parlata è una lingua che invita al rispetto per il prossimo, a una cerimoniosità eccessiva. Ci sono una serie di espressioni che si usano unicamente quando si parla con persone che non si conoscono o con qualcuno che ha una posizione di potere, come un datore di lavoro o un pubblico ufficiale. E quando sai che, di base, ti devi rivolgere in un certo modo agli altri, sei un po’ limitato. Ma non dalla lingua. Proprio dall’approccio».
In che modo?
«Devi usare parole ed espressioni precise, già previste. Non c’è la libertà di parlare come si vuole. Devi seguire degli schemi. Per un italiano penso che sia abbastanza difficile da accettare o da comprendere. Anche non volendo, si crea una distanza. E si creano degli ostacoli. E questa distanza e questi ostacoli, a lungo andare, possono portare a prendere delle decisioni drastiche, come non uscire più di casa o non avere più contatti con gli altri. È il caso degli hikikomori. Oppure, a volte, le persone cedono all’alcol; bevono quando finiscono di lavorare, per non affrontare lo stress o comunque per non pensare ai loro problemi. E bevono fino a svenire per strada. Questo, poi, si collega a un ulteriore tema. E cioè gli orari estremi che ci sono in Giappone».
Tu, però, che rapporto hai con la solitudine?
«Sotto questo punto di vista, mi sento molto giapponese. Credo sinceramente che una persona che non sa stare bene da sola non saprà mai stare bene con qualcun altro. Avendo avuto sempre questa mentalità, non ho mai sofferto la solitudine. Non sento il bisogno, diciamo così, di incontrare gli altri o di stare in qualunque momento in compagnia. Allo stesso tempo, è vero anche che la troppa solitudine non fa bene. Dopo dieci anni, sento ancora molto l’essere sola in Giappone. Non ho nemmeno un amico giapponese, pensa. Ho conoscenti, certo. Ma non sono amici. È evidente, insomma, una chiusura. Non ho nessuno da chiamare per prendere una birra così, all’ultimo minuto. Nelle città grandi come Tokyo, ti devi organizzare. Mandi messaggi – non chiami, no: qui nessuno chiama – in anticipo solo per prendere un appuntamento. È come un impegno di lavoro».
Qual è la cosa che ti piace di più del Giappone?
«Sono varie cose, non una sola. All’inizio, prima di trasferirmi in Giappone, credevo molto nella cultura del rispetto nei confronti del prossimo. Poi, quando mi sono trasferita, ho capito che ogni interazione è costruita e che non c’è solo questa idea del rispetto del prossimo. Ora come ora, dopo dieci anni in Giappone, ti direi che la cosa che apprezzo di più è il modo in cui, di solito, vieni trattato. Quando compri qualcosa, quando prendi un mezzo pubblico; quando vai in un locale. C’è un riconoscimento estremo per il cliente o, comunque, per la persona».
Ci si abitua, a un certo punto?
«È una cosa che mi colpisce sempre, ogni volta che la vedo. Percepisci in modo sincero la gratitudine. Una cosa che in Italia, forse, non c’è. O almeno se c’è non è così. Mi ricordo ancora di quando, da bambina, presi lo Shinkansen, il treno ad alta velocità, con mia madre; dovevamo andare dalla sua famiglia. E mi ricordo che, nonostante fossimo voltati nella direzione della corsa, tutti quelli che entravano o uscivano dalla carrozza, addetti, controllori, venditori di bibite, si inchinavano per salutarci. E nessuno li guardava. Mi colpì molto».
Qual è, invece, la cosa che ti manca di più dell’Italia?
«La spontaneità. Quel modo di essere e di parlare e di stare insieme. La totale libertà nel potersi esprimere. Se io voglio dire una cosa, la dico. Non esiste l’espressione giusta da usare, quella che ti fa accettare dalla società. In Italia scegli tu chi essere, come comportarti. Di base, c’è indubbiamente una mentalità più aperta. Mi manca poter parlare con persone che non conosco, o che non conosco bene, senza cerimonie. Nella zona di Roma dove sono cresciuta, c’è un’aria proprio amichevole. Ed è una cosa di cui, spesso, sento la mancanza».
Che cos’è quella cosa, o quella qualità, che ti fa identificare un posto come casa?
«Secondo me ha a che fare molto con l’atmosfera che si respira. Quella spontaneità di cui ti parlavo poco fa e che personalmente avverto solo in un certo posto, a Roma. Mi sento libera di poter andare a comprare un pezzo di pizza e di poter parlare con il cassiere. Cammino in strada, e parlo con i passanti. E così, anche così, si possono creare delle amicizie. In Giappone non è comune. In Italia mi pare quasi che ci sia un’idea condivisa di famiglia. Ed è una cosa bella. Una cosa che, appunto, mi fa sentire a casa».
Foto di Yuki Fujiyabu. Grafica di Manuel Bruno.