di Gianmaria Tammaro
Il primo ricordo in teatro e il brividio della recitazione. L’incontro con Gabriele Salvatores, la lezione del set; l’importanza di vivere l’attimo con gli altri attori. Il provino con Carolina Cavalli, l’amore per il suo linguaggio, la grande prova de Il rapimento di Arabella. Un futuro al cinema e, forse, in televisione. E poi il teatro come grande banco di prova, per diventare un tramite tra il pubblico e il palcoscenico. L’intervista.

Quando gli chiedo perché fa l’attore, Marco Bonadei si prende un momento. Mi dice che una parte di lui vorrebbe rispondermi che recitando si possono vivere altre vite. Allo stesso tempo, però, mi spiega che la recitazione coincide con i suoi ricordi più belli. Anzi, l’esperienza stessa della recitazione, in qualche modo, evoca la bellezza. Ne Il rapimento di Arabella, il nuovo film di Carolina Cavalli al cinema con PiperFilm, Bonadei interpreta un uomo sospeso, timido, estremamente combattuto: uno che si fa mille domande prima di agire, e che alla fine, anche davanti all’evidenza, fatica enormemente a fare un passo in avanti. Lavorare a questo personaggio, spiega, gli ha permesso di guardarsi da un’altra prospettiva: di vedersi, quasi, nel passato. Come in una proiezione.
Incontrare Cavalli è stato un modo per studiare e sperimentare, e per conoscere un linguaggio di cui si era innamorato anni fa, vedendo Amanda, il primo film di Cavalli. Bonadei parla di astrazione e di consapevolezza, e pure della fatica enorme, quasi debilitante, che è imparare a fare i conti con la paura, con le aspettative e con l’ansia. Quella parte della sua vita, dice, è passata. Ora tutto quello che vuole, tutto quello che cerca, è riuscire a riappropriarsi dell’istintività dei primi tempi, quando ogni spettacolo sembrava una grande avventura e non c’erano né limiti né costrizioni per la sua voglia di fare ed essere.

Qual è il tuo primo ricordo legato al teatro?
«Più che un ricordo vero e proprio, fatto di immagini e di parole, è una sensazione: la sensazione di aver finalmente trovato una zona di comfort. Mi spiego meglio. Mi torna in mente il tocco caldo di un piacere enorme, un piacere sottocutaneo, fatto principalmente di gratificazione».
E non c’è mai stata, invece, la paura?
«Sicuramente. Ma quella è venuta dopo, con il tempo, insieme all’ansia, alla voglia di dimostrare qualcosa, di superarmi, di essere all’altezza delle aspettative, di voler piacere a qualcuno: un amico, un collega, un parente. Sai però che questa non è solo una cosa mia? Mi pare che sia una cosa che succede spesso. Soprattutto in una certa fascia d’età, tra i venticinque e i trent’anni. È una paura che monta, che sale, che mette insieme barriere e insicurezze. Ci si augura che crescendo una persona riesca ad andare avanti, a lasciarsela dietro».
All’inizio la recitazione è più istintiva?
«Per quanto mi riguarda sì, e in questo momento sto provando a fare esattamente questo: riconquistare quella spregiudicatezza».
Questo approccio come cambia sul set?
«Partiamo da un presupposto, e cioè che il teatro, dalla sua, ha la ripetitività. Andare in scena ogni giorno, per quanto rischioso e sfidante, rappresenta un’opportunità per migliorarsi e per fare meglio. Se la sera prima fai un errore, quella dopo puoi recuperare e correggerlo. Al cinema è diverso; al cinema è tutto condensato. In una giornata, devi riprendere più cose in poco tempo. In un certo senso è come se la vita del cinema avesse una durata più limitata: devi debuttare, esplorare il personaggio, viverlo e concludere il racconto velocemente. Poi c’è un’altra differenza».
Quale?
«In teatro c’è sempre il pubblico. E non solo quando è un interlocutore diretto. Anche quando si limita a esserci, a osservare. Il cinema, nella sua forma più classica, quella che Mark Cousins chiama “realismo romantico chiuso”, ti permette di lavorare unicamente con i tuoi compagni di scena, di set. Non pensi mai, o almeno non dovresti pensare mai, alla presenza di un terzo interlocutore».
Che cosa ricordi del tuo primo incontro con Carolina Cavalli?
«Prima ancora di conoscerla di persona, l’ho incontrata attraverso il suo film, Amanda, che ho trovato incredibile. È stato un colpo di fulmine. Me ne sono innamorato. Così come mi sono innamorato del suo linguaggio e, ovviamente, dell’autrice che c’è dietro, con la sua visione assolutamente unica nel panorama italiano. Solo in un secondo momento ci siamo incontrati. Durante il primo provino, ho trovato una persona di estrema dolcezza, accogliente, che mi ha messo immediatamente a mio agio. Soprattutto, Carolina mi è sembrata attenta a quello che voleva vedere e a dove voleva andare».
Da che cosa l’hai notato?
«Dai dettagli, dalle piccole cose; dalla sua precisione. Non è una cosa scontata. Abbiamo affrontato un bel percorso insieme, a partire dal provino, prima di arrivare al set. E questa, secondo me, è stata la cosa più bella. Perché abbiamo avuto modo di costruire il personaggio, allontanandoci da me, da quello che sono, e cercando solo in un secondo momento dei punti di contatto».
Che cosa condividete tu e Maccarico, il tuo personaggio?
«Ci riflettevo in questi giorni. Il mio personaggio è una di quelle persone bloccate in sé stesse, perennemente combattute, perennemente travolte dai dubbi. Maccarico non agisce, ed è una cosa che fa molto ridere, visto che fa il poliziotto. Di fronte a Holly, però, si sblocca. E decide di prendere l’iniziativa. Forse esagera, forse lo fa in maniera sconsiderata e impreparata. Quello che abbiamo in comune è questo cambiamento: l’evoluzione che attraversa Maccarico mi ricorda il modo in cui io stesso sono cresciuto. E se vuoi, in Maccarico io rivedo il mio passato, ciò che sono stato. Spesso mi è successo di non agire perché bloccato dalla paura. Soprattutto emotiva. Se ho un punto fermo, in questo momento della mia vita, è la consapevolezza che compiere delle azioni, anche a rischio di sbagliare, è molto meglio che avere dei rimpianti».
Un’altra cosa che mi pare evidente in Maccarico è la sua dipendenza profonda dal padre. Tu che rapporto hai con i tuoi genitori?
«Credo di aver riconosciuto solo in età adulta l’impatto che hanno avuto su di me, per la persona che sono diventato, gli insegnamenti dei miei genitori. Forse è stato per mia madre che dalla sua vita voleva altro, forse invece è stato l’atteggiamento di mio padre nel suo lavoro, però ho capito che è importante seguire fino in fondo ciò che si desidera, che si sente, rimanendo onesti con sé stessi. E intendiamoci: non è detto che le cose vadano nel modo in cui vogliamo. La felicità è questo, probabilmente. Saper stare, saper vivere, in relazione a ciò che consideriamo più aderente a chi siamo».
Quanto spazio c’è stato sul set de Il rapimento di Arabella per improvvisare?
«La scrittura, secondo me, è fondante nel cinema di Carolina. E quindi le parole vanno rispettate completamente, senza compromessi. Per quanto invece riguarda quello che si muove intorno alla scrittura, e quindi l’emotività dei personaggi e la loro costruzione, dai sentimenti alle pulsioni più fisiche, c’è molto spazio di manovra e c’è molta libertà per gli attori».
Che cosa ricordi, invece, del primo incontro con Gabriele Salvatores?
«Premetto che sapevo già che c’era un interesse nei miei confronti per un ruolo nel suo film, Comedians. Un giorno, durante la quarantena, mi ha chiamato. Ha esordito dicendo: “pronto, sono Gabriele Salvatores”. (imita il tono, ndr) E io gli volevo rispondere: e io sono Nick Cave. (ride, ndr) Da lì, poi, si è sciolto il dialogo e siamo entrati subito nel vivo del suo interesse; io gli ho detto che ero assolutamente disponibile e lui, scherzando, mi ha detto: “e ci mancherebbe altro”. Dal vivo non ci eravamo mai parlati; lui mi aveva visto al Teatro dell’Elfo, che è il suo teatro, dove è ancora socio, ma non ci eravamo mai incontrati. Ci siamo conosciuti da Indiana, a Milano, ed è stato subito un incontro accogliente. Gabriele è una persona alla mano, non crea nessuna distanza. Quando abbiamo girato, eravamo in un questa bolla, a Trieste, e siamo stati sempre insieme. È nata subito una forte dinamica di gruppo».
Che cosa hai imparato lavorando con Gabriele Salvatore?
«In realtà, ogni grossa esperienza insegna qualcosa, se ovviamente si è disposti ad apprendere. Stare tanto tempo sul set con Gabriele è stato il primo, grande insegnamento. E poi è un’ottima guida, perché riesce a farti sentire libero mentre ti dirige. Con lui ho capito quella cosa che ti dicevo prima: che non c’è un pubblico sul set, che conta la dinamica tra attori. E Comedians è un film che si muove sul confine sottile tra cinema e teatro, visto che nasce come spettacolo».
E invece sul set de Il rapimento di Arabella che cosa hai imparato?
«Per me è stata un’esperienza straordinaria, iper-formativa. È stata una delle esperienze più importanti in assoluto. In me c’è stato uno scatto interiore enorme. Il lavoro con Carolina, che ha questo linguaggio che si muove in sottrazione, che delinea queste figure che tendono al grottesco, ma che non sono grottesche, che hanno in sé un’astrazione, un’immagine sbiadita dei bambini che erano, è un lavoro a cui ambisco. E spero di essere riuscito nel tentativo di mettere da parte me stesso, la persona e l’attore, per lasciare spazio al personaggio. E non per costruirlo su di me. Un lavoro opposto, mi viene da dire, rispetto a quello che ho fatto sul film di Paola Randi, La storia del Frank e della Nina, dove abbiamo costruito il ruolo sulla mia personalità. Che, attenzione, non vuol dire che è più aderente a me. Lavorare con Carolina mi ha permesso di crescere come attore».
Quanto diventa difficile riuscire a farsi da parte quando si sente quel bisogno che mi dicevi prima, di dimostrare qualcosa?
«C'è stata una fase in cui questa cosa è stata molto difficile, e ti parlo di quando avevo venti, venticinque anni. Ora come ora, la lotta con questa parte è stata vinta. O almeno, siamo arrivati a una tregua. Perché non credo che si possa vincere completamente. È un istinto che torna spesso. Finché siamo attaccati alle cose, sentiamo sempre il bisogno di dimostrare qualcosa. E anche per questo lavorare con Carolina è stato importante; mi ha ricordato che possiamo bastare per quello che siamo, quando ci mettiamo al servizio di un progetto, di una storia o di una persona. Orson Welles diceva: quando devo interpretare un personaggio, cerco di lasciare in camerino le parti di me che non gli riguardano».
Qual è la cosa che, ora, cerchi?
«In questo momento desidero fortemente crescere e poter continuare a confrontarmi con nuovi ruoli e nuovi linguaggi sul piano cinematografico e, perché no, sul piano televisivo attraverso la serialità. In teatro non mi sto spendendo molto come interprete; non sto nemmeno cercando lavoro in quella direzione. In questo momento sto progettando una crescita sul lato autorale-registico. Proprio per affrontare da fuori, sperimentando, il linguaggio del teatro».
A un certo punto si sente la necessità di defilarsi, di non essere sempre al centro dell’attenzione?
«Non è tanto questo. Ora come ora sento di aver fatto tanto teatro e non avverto quella voglia di mordere le assi del palcoscenico. Ma non lo lascio. Anzi, continuo. Adesso mi piacerebbe essere colui che determina e indaga sul rapporto tra pubblico e palcoscenico, più che essere la carne e il sangue in scena. Alla fine è questo quello che fa il regista».
Perché fai l’attore?
«Mi piacerebbe risponderti: perché ho l’occasione di vivere molto più tempo di quello che ci è dato. E forse in parte è anche questo. Volendo essere più pragmatico e concreto, ti dico che la recitazione, che è espressione di sé stessi e indagine di altri mondi e di altre vite, di relazioni ed esseri umani, coincide con i ricordi più belli che ho. Recitare è comunicazione. Fin da bambino, mi sono sempre messo in contatto con il mondo così. La recitazione è il modo migliore, il mio modo, per comunicare con le persone. Quando sei sul palcoscenico, avverti una sensazione di bellezza. E quella sensazione non passa mai, rimane, è un ricordo. Ed è questo ricordo che mi fa dire, alla fine, “questa è la mia vita”».
Foto di Paolo Palmieri. Grafica di Manuel Bruno.