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intervista
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29.11.2025

SUPERNOVA NR. 50: Luca Vergoni

di Gianmaria Tammaro

I due anni e mezzo di riprese per Orfeo, il film di Virgilio Villoresi. Le domande su sé stesso e sul mestiere dell’attore. La lezione di Stefano Mordini sul set de La scuola cattolica. La voglia di solitudine e il rapporto con la scrittura. Essere autori e non solo interpreti. Le aspettative per il futuro. Il bisogno di rallentare in un mondo che va sempre più veloce. L’importanza del contatto fisico per un attore. La paura rinvigorente del teatro. L’intervista.

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Per Luca Vergoni lavorare a Orfeo, il film di Virgilio Villoresi tratto da Poema a fumetti di Dino Buzzati (Mondadori) e distribuito da Double Line, è un’esperienza difficile da definire. È durata quasi tre anni, e in questo tempo Vergoni ha avuto modo di farsi delle domande. Su sé stesso, innanzitutto, ma anche sul suo lavoro. E ha capito una cosa: ha capito che tipo di artista vuole essere. Anche questo, ora, non riesce a definirlo chiaramente a parole. È un concetto che assomiglia più a una sensazione: qualcosa che si avverte dentro, tra la bocca dello stomaco e la parte bassa del ventre. La prima volta che Vergoni si è iscritto a un corso di recitazione lo ha fatto per non rimanere solo. Era in terza media, stava per andare al liceo, e per restare in contatto con i suoi amici ha iniziato a fare teatro insieme a loro.

Ha deciso di lavorare come attore successivamente, durante le superiori, dopo aver preso parte a diversi spettacoli per bambini. Sul set de La scuola cattolica Stefano Mordini gli ha dato uno dei consigli più importanti della sua carriera. Su quello di Orfeo, invece, ha imparato a fare i conti con la dimensione fisica della messa in scena e a seguire attentamente le direzioni di Villoresi. Ora si trova davanti a un bivio. Non vorrebbe avere aspettative, ma un progetto come Orfeo finisce sempre per crearle. La solitudine, oggi, è una cosa che cerca. Quando Vergoni scrive gli capita spesso di scrivere di sé stesso. E questo perché nell’atto della scrittura non ci sono mediazioni: scrivendo a mano, con la penna, le parole scorrono libere e senza freni. E l’assenza di mediazioni, forse, è il segreto anche della recitazione: vivere l’attimo, non inseguirlo.

È stato difficile trovare questo ruolo e Orfeo?
«In realtà, no. Sono stato contattato da Virgilio. Non ci sono stati casting director o provini veri e propri; a Virgilio non piace lasciare che sia qualcun altro a scegliere gli attori per il suo film. E quindi, dopo una mail in cui mi aveva già mandato una bozza di storyboard e di sceneggiatura, io mi ero già fatto un’idea del progetto».

Che cosa avevi capito?
«Che sarebbe stato, diciamo così, assai particolare».

E a quel punto che cosa è successo?
«Ci siamo presi un caffè e abbiamo fatto questo provino molto atipico che è durato quasi due giorni. Virgilio voleva capire che cosa ero in grado di fare. E, in pratica, già solo durante quell’incontro abbiamo fatto metà sceneggiatura. Dopo sei mesi, siamo andati sul set».

Villoresi ti aveva notato ne La scuola cattolica di Stefano Mordini?
«In realtà, più che in quel film, Virgilio mi aveva visto in certe interviste che avevo fatto a Venezia. Lo aveva incuriosito il modo in cui mi muovevo e mi sedevo; gli ricordavo, mi ha detto, la nobiltà decaduta di Orfeo. Direi che sono stato molto fortunato».

Tu avevi già letto Poema a fumetti di Dino Buzzati, da cui Orfeo è tratto? O l’hai recuperato dopo il film?
«L’ho recuperato prima del provino. Quando mi è stato detto che avevo ottenuto il ruolo, ho cominciato a sviluppare una mia versione, appropriandomi del personaggio originale di Buzzati».

Spesso sul set di Orfeo ti sei dovuto confrontare con personaggi che non esistono. Per esempio, a un certo punto reciti con una giacca. Che tipo di esperienza è stata?
«Forse quella è stata la sfida più grande. L’attore, di solito, si muove sempre in relazione a qualcun altro. E questo non solo al cinema, sul set, ma anche a teatro. Anche se sei in scena da solo, c’è il pubblico, con la sua presenza e la sua energia, con cui finisci per interfacciarti. Per Orfeo ho dovuto fare uno sforzo diverso».

Diverso come?
«All’inizio l’ho associato molto al teatro, ma poi ho capito rapidamente che si trattava di un’altra cosa. Una via di mezzo, se vuoi, tra cinema e teatro. Questa mancanza di relazione con qualcun altro mi ha permesso di scoprire cose nuove. La prima scena che abbiamo girato è stata proprio quella con la giacca, e abbiamo avuto qualche difficoltà nel far coincidere gli sguardi. Ci abbiamo provato diverse volte. C’è stato un bel lavoro dietro, proprio per creare qualcosa di credibile».

Il film che alla fine hai visto è stato diverso rispetto al film che hai girato?
«In un certo senso sì. Ma non così tanto. In questi due anni e mezzo, abbiamo visto quasi costantemente quello che giravamo; abbiamo lavorato senza una segretaria di edizione ufficiale, e quindi era importante riesaminare tutto per essere sicuri. Conta, poi, che usando la pellicola ci potevamo prendere veramente poche libertà. Qualche volta c’era la sensazione di fare qualcosa di strano, difficile da inserire nel resto del girato. Ma la cosa che mi ha tutelato molto, che mi ha tenuto legato al set, è stata la scenografia, la sua dimensione fisica. Grazie a quella e a Virgilio, ho capito abbastanza istintivamente in che direzione stessimo andando».

Quanto spazio c’è stato per l’improvvisazione?
«Poco, molto poco. E questo per un semplice motivo: Virgilio sapeva perfettamente dove e quando inserire primi piani e inquadrature particolari; voleva me e gli altri attori in punti specifici. Abbiamo fatto pochissimi totali di prova. Virgilio è sempre stato convinto di quello che gli serviva. E poi, sai, c’era la questione della pellicola: non potevamo esagerare».

Per girare Orfeo ci avete messo due anni e mezzo, mi dicevi. Che tipo di quotidianità si è creata durante quel periodo?
«Non saprei definire con precisione che tipo di esperienza è stata. Io salivo da Roma, passavo un paio di settimane al mese a Milano per girare. Dopo il primo anno e mezzo, si è creata una dinamica particolarissima. Anche parlando con gli amici, dicevo: ora salgo per girare Orfeo. Solo così, Orfeo. Non il film. Ci sono state delle persone, prima dell’inizio delle riprese, che mi hanno consigliato di non accettare».

Perché?
«Dicevano che poteva diventare un film lunghissimo, che mi avrebbe impedito di prendere parte ad altri progetti. Onestamente non ho capitato tutti questi ragionamenti».

Affrontare lo stesso personaggio, per così tanto tempo, che effetto ha avuto su di te?
«Ha creato una certa insicurezza. Perché non sempre sapevo dove stessi andando, che cos’altro potessi aggiungere; e per un attore è complicato».

Come hai reagito quando hai visto Orfeo per la prima volta?
«L’ho rivisto diverse volte, anche durante le sessioni di doppiaggio. Poi Virgilio mi ha mandato una versione prima di Venezia. E quando l’ho visto, mi sono emozionato. Magari per dei momenti che, per il pubblico, non sono nemmeno così importanti, ma per me sono stati fondamentali».

Per esempio?
«Per esempio una scena animata in cui divento polvere e inizio a volare, una cosa che non potevo minimamente immaginare sul set. Soprattutto, però, mi ha colpito la velocità del racconto. Durante le riprese, durante quasi tre anni, non ho mai visto le scene come un’unica cosa, così vicine; c’è sempre stato un periodo di tempo a dividerle, a volte anche piuttosto lungo».

Tu suoni strumenti?
«Suono il pianoforte, sì, ma da autodidatta. Non sono un fenomeno. Nel film suona Angelo (Trabace, ndr), l’autore delle musiche. Ho provato a chiedergli gli spartiti, anche per mandare a memoria i movimenti delle mani sulla tastiera, ma non ne aveva; era tutto nella sua testa. Ho dovuto seguirlo sul set, da vicino, per provare a imparare qualcosa».

Che cosa credi che abbiano in comune la musica e la recitazione?
«Sicuramente il ritmo. In recitazione si dice spesso: “segui la musicalità delle battute” o “segui il ritmo della scena”. La musica è alla base di molte cose, anche di una certa espressività del corpo».

Com’eri da bambino?
«Molto tranquillo. Timidino. Crescendo e facendo teatro, mi sono aperto un po’ di più. Ho sempre amato la lettura, e questa cosa ha finito per isolarmi quando ero piccolo».

Perché, a un certo punto, hai deciso di fare teatro?
«All’inizio ho cominciato per seguire degli amici. Non volevo rimanere solo. E così, tra la terza media e il primo liceo, mi sono iscritto anche io a questo corso. Alla fine, quasi senza rendermene conto, ci sono finito dentro. E mi sono innamorato. Non lo avevo mai visto così, il teatro. Mi ero sempre concentrato sulla lettura e sulla scrittura, una cosa che non ho mai abbandonato. Ho capito di voler lavorare come attore durante il liceo, facendo degli spettacoli per bambini. Innanzitutto perché venivo pagato e poi per il contatto con il pubblico. I bambini sono quelli che ci credono più di tutti».

Prima di andare in scena, in teatro, si prova paura?
«Assolutamente sì».

Che tipo di paura è?
«È la stessa paura che si prova su un ponte tibetano: è la paura dell’altezza. Sei su una scogliera, ti tremano le gambe, ma ti vuoi anche buttare. E quando lo fai, scopri che non è niente di così assurdo o spaventoso; scopri, anzi, che è divertente».

Crescendo, hai abbandonato la solitudine?
«In realtà, adesso la cerco. Sto andando nella direzione opposta rispetto a quando ero più piccolo. Sto provando a capire cosa voglio fare. Anche girare Orfeo per così tanto tempo mi ha dato modo di pensare al tipo di artista che voglio essere. E lo ha fatto in un momento particolare, con il mondo che va velocissimo e che non sembra intenzionato a fermarsi. Siamo ossessionati dall’idea di migliorare e quasi non ci interessa imparare a conoscerci meglio».

Ti rubo la domanda che ti sei fatto durante le riprese di Orfeo e ti chiedo: che tipo di artista vuoi essere?
«Onestamente non l’ho ancora capito; o almeno non te lo so spiegare così chiaramente. So però che se faccio questo mestiere è perché ho qualcosa da dire. Orson Welles ripeteva che ogni attore è anche autore e scrittore. Ecco, io ho provato ad appropriarmi ancora di più di questa cosa. Scrivevo già, come ti ho detto. Ma ora scrivo molto di più, ho fatto pure un corso di sceneggiatura. Sto cercando di capire quello che posso dare agli spettatori. Mi piace molto l’idea dell’arte come possibilità di salvezza del prossimo».

Che qualità ha la solitudine della scrittura?
«C’è come uno staccarsi dalla realtà; non mi rendo bene conto del tempo che passa. Mi rendo conto delle pagine che si accumulano. Io scrivo a penna, e il tempo che passa coincide con il numero di parole che scrivo. Anche se scrivo soprattutto cose di fantasia, finisco sempre per scrivere di me stesso. Quindi c’è un processo catartico. La scrittura parte sì da un momento di solitudine, ma poi torna sempre alla condivisione con gli altri; io vengo alimentato da questa cosa, mi accende».

Ti è mai capitato di scrivere per affrontare qualcosa che ti è successo?
«Mi è capitato, sì, ma non è una cosa che faccio abitualmente. Mi è capitato perché la scrittura è uno strumento; o almeno, ecco, può esserlo. E quando lasci andare il corpo, quando ti metti a scrivere, finisci per non limitare i tuoi pensieri».

Quanto sono importanti nel mestiere dell’attore il contatto con la materia e la dimensione fisica del set?
«Tanto. Ti avvicina molto al luogo e alla storia che racconti. La scenografia può essere fondamentale. Come attore so che non è vera; però avere una percezione dell’ambiente, di ciò che succede, ti aiuta. Il corpo viene influenzato. Stefano Mordini, sul set de La scuola cattolica, mi ha detto una cosa importantissima; mi ha detto che la recitazione è l’arte della distrazione. E così, se un attore in scena è distratto, attivamente distratto, le sue reazioni saranno sempre credibili. Non realistiche, perché di reale non c’è nulla, ma credibili forse sì».

La tua famiglia come ha reagito alla tua decisione di fare l’attore?
«Forse, all’inizio, ero più spaventato io. (ride, ndr) Mi ero iscritto a Ingegneria dopo aver fatto il liceo scientifico. Non ero così convinto di riuscire a vivere con la recitazione. Quando sono andato a fare i provini come spalla per un’amica, ci sono rimasto incastrato. A quel punto l’ho detto ai miei genitori, che mi hanno subito sostenuto e assecondato. Mi hanno sempre incoraggiato dicendomi di essere felice».

Tu sei figlio unico?
«No, no. Sono il secondo di cinque figli».

E si fa sentire, a volte, il peso delle responsabilità come figlio maggiore?
«Non è mai stata una responsabilità pesante. Avere una famiglia così numerosa è una cosa bella; mi ha sempre dato una certezza».

Quale?
«Che c’è sempre qualcuno pronto ad aiutarti».

Come hanno reagito i tuoi genitori e i tuoi fratelli quando hanno visto Orfeo?
«Ecco, loro lo hanno visto a Venezia. Non so dirti, ora, che cosa hanno pensato nello specifico. So solo che, quando è finita la proiezione, sono andato a cercarli per farmi una foto con loro. Era un momento bellissimo e volevo conservarlo».

Quanto è stato difficile, se lo è stato, abbandonare il set di Orfeo?
«Un po’ è stato difficile, sì. Forse l’ho capito di più ultimamente, quando ho rivisto Virgilio. Durante le riprese lo vedevo ogni giorno. Quando l’ho rivisto, mi sembrava di essere stati lontani per tantissimo tempo. Dentro e fuori il set, c’è sempre stato uno scambio continuo di idee. E quello scambio, poi, ha iniziato a mancarmi. Tra le fine delle riprese, Venezia e le prime proiezioni, non è passato così tanto tempo. Quindi devo ancora abituarmi fino in fondo».

Dopo aver fatto un film del genere, si creano delle aspettative sul prossimo film?
«Non tanto sul prossimo film, ma proprio in generale, sul mestiere. Durante le riprese di Orfeo dovevo essere all’altezza di Virgilio e di Poema a fumetti di Buzzati. C’è sempre la responsabilità di raccontare qualcosa e di farlo al meglio. Diventa difficile, se vuoi, immaginare il prossimo passo».

Prima mi parlavi della lezione di Mordini sul set de La scuola cattolica. Qual è stata, invece, la lezione di Orfeo?
«Più che una lezione, Orfeo mi ha lasciato delle domande. E sono state queste domande che mi hanno fatto maturare. E poi c’è stato il rapporto con Virgilio: non parlavamo solo sul set; parlavamo in continuazione. Virgilio ha acceso una passione estremamente viscerale per questo mondo. Forse, la cosa più importante che ho imparato durante le riprese di Orfeo è stata riconoscere la serietà delle mie intenzioni di fare l’attore».

Foto di Erica Fava, MURO Productions. Grafica: Manuel Bruno.