di Gianmaria Tammaro
Dall’infanzia a Catania ai pomeriggi passati in sala prove con gli amici a suonare. E poi la scrittura, il rapporto con la musica, i suoi due libri: Sabato champagne, pubblicato da Solferino, e Una cosa stupida, pubblicato da Mondadori. I giornali, la sfida di lavorare a un romanzo e l’amore quasi viscerale per la tv. L’intervista.

Alice Valeria Oliveri è cresciuta in una casa senza porte. E questo, più di qualsiasi altra cosa, ha finito per condizionarla. Quando scrive, lo fa pensando già a chi, poi, la leggerà. Il suo problema più grande, dice, non è la pagina bianca: è non riuscire a trattenersi, a stare dentro un certo numero di battute e di spazi. Una cosa stupida, il suo ultimo romanzo pubblicato da Mondadori, è un insieme di esperienze vere, che ha vissuto in prima persona, e della sua capacità di immaginare.
La protagonista, Adriana, ha lo stesso nome di una persona cara a Oliveri che non c’è più. Il padre di Adriana è un musicista, com’è un musicista anche il padre di Oliveri. Ed entrambe hanno in comune la passione e un rapporto strettissimo con la musica. Se per Adriana questo è quasi un limite, per Oliveri è sempre stata una possibilità per divertirsi e per stare insieme ai suoi amici il sabato pomeriggio, dopo scuola, a Catania.
Quando era più piccola, ha conosciuto artisti come Gianna Nannini e Franco Battiato. La televisione, sia per il suo lavoro di giornalista che per la sua formazione, è sempre stata centrale nella sua carriera. Per sei anni ha fatto l’analista a TvTalk, ora è una degli opinionisti. Ha scritto per giornali come VICE, The Vision e Rivista Studio. Oggi ha una rubrica per il quotidiano Domani. Le piace tornare a Catania e stare con la sua famiglia e un giorno spera di potersi trasferire di nuovo in Sicilia.

Anche tu vivi a Milano come la protagonista di Una cosa stupida?
«In realtà a Milano ho vissuto pochissimo, appena un anno. Ho studiato e mi sono laureata a Roma, dove mi sono trasferita quando avevo 19 anni. A Milano ci sono andata per lavorare a The Vision. Poi sono scappata a gambe levate e sono tornata a Roma. Quando ho lavorato per Mediaset, per quattro anni, ero sempre a Roma; a Cologno Monzese ci andavo quasi ogni settimana, ma non mi sono mai spostata in modo più o meno definitivo».
Ci sono dei punti di contatto tra te e la protagonista. Anche tuo padre è musicista. E anche tu hai avuto un percorso nella musica.
«Le colonne portanti di Una cosa stupida sono fortemente autobiografiche. Mio padre, come dicevi, è un musicista. E anche io ho suonato in una band. Poi ho lavorato in una redazione a Milano, come la protagonista del libro. Rispetto al padre di Adriana, il mio non ha mai insistito per farmi fare musica. Zero. Non ho avuto nemmeno un rapporto problematico con la musica. Io ho suonato sempre e solo per divertirmi. Ho passato i pomeriggi della mia adolescenza in sala prove con i miei amici, ed è stata una cosa molto importante per me. Ho abbandonato lo studio della musica classica, sì, ma senza drammi».
E per quanto riguarda il periodo in redazione?
«Sono in contatto con diverse redazioni. L’ho sempre fatto. Quindi diciamo che quello che vive Adriana è un po’ frutto delle mie esperienze: ci sono sia cose che ho effettivamente visto sia cose che, invece, ho inventato del tutto. Però, a parte questi tre pilastri, il libro prende una strada diversa rispetto alla mia vita. Sono andata quasi al contrario».
In che senso?
«Ho provato a ribaltare, in modo piuttosto radicale, quello che ho vissuto».
Sia in Sabato champagne, pubblicato da Solferino, che in Una cosa stupida le protagoniste hanno un nome che inizia con la A, come Alice.
«Quello è stato voluto. È una cosa che ho rubato, diciamo così, a Italo Svevo e a La coscienza di Zeno, dove questa cosa delle lettere torna abbastanza spesso e i personaggi tendono a identificarsi con le loro iniziali. Ho scelto questi nomi perché si tratta delle protagoniste. Dietro Adriana, però, c’è anche un altro motivo: è il nome di una persona cara che non c’è più, e in qualche modo volevo ricordarla. Il cognome della protagonista, Franco, è lo stesso cognome della mia bisnonna».
Che cosa ricordi della tua infanzia a Catania?
«Mi ricordo tutto, credo. E forse la mia infanzia, fino ad adesso, è il periodo più bello che ho vissuto. Una cosa che ricordo bene sono i concerti di mio padre. Lui fa parte degli Uzeda, e quando ero più piccola ha collaborato con diversi artisti. Negli anni Novanta, sono arrivati un sacco di gruppi americani a Catania. E Catania veniva quasi vista come la Seattle d’Italia. Io ero una bambina, però mi ricordo questo fermento. I miei genitori mi portavano sempre con loro quando andavano ai concerti; non si sono mai fatti problemi, nemmeno quando avevo 4 anni. E poi mi ricordo la Catania di Enzo Bianco. Mi dispiace non aver vissuto la mia adolescenza in quel periodo: è la “raggiante Catania” di cui canta anche Carmen Consoli, se ci pensi».
Hai mai incontrato Franco Battiato? Tuo padre ha suonato anche con lui.
«Battiato aveva questa abitudine di invitare molto spesso tantissime persone a casa sua. Quando ero piccola, ho frequentato un po’ le sue cene con mio padre e mia madre. E la cosa che ricordo è che erano cene divertentissime. Teneva la televisione sempre accesa e quando passava qualcuno che conosceva raccontava aneddoti. Per esempio, raccontò l’aneddoto di quando aveva incontrato Loredana Bertè in aereo e lei gli aveva fatto vedere il seno. Era incredibilmente generoso, Battiato. E non lo dico per dire, come frase fatta. Era pronto ad aiutare tutti; non si risparmiava mai».
A un certo punto, hai fatto un provino per Amici.
«Quasi dieci anni fa, oramai. Quando ero a Catania, come ti dicevo prima, suonavo con i miei amici. E uno di questi amici era Brando Madonia, il figlio di Luca Madonia. Con la sua band, i Bidiel, doveva fare il provino per Amici. Il batterista del gruppo, però, non poteva partecipare. E così, due settimane prima dei provini, mi ha chiamato. Visto che sono sempre stata in fissa con la televisione, ne ho approfittato. Quello che è successo, poi, l’ho raccontato piuttosto dettagliatamente in Sabato champagne. È stata un’esperienza incredibile dal punto di vista letterario: ho ricavato abbastanza materiale per diverse cose che ho scritto. E ti dirò: lo farei altre mille volte. È stato veramente divertente. Per fortuna non ci hanno presi e non è diventata una cosa seria».
Andando ad Amici, hai incontrato anche Maria De Filippi, di cui hai scritto piuttosto spesso.
«La cosa che più si nota, potendo guardare dietro le quinte dei suoi programmi, è la dedizione di tutti quelli che le stanno attorno. E questo dimostra il grande lavoro che richiede un certo tipo di televisione. Il messaggio finale, magari, può essere poco condivisibile, ma la struttura è pura narrazione, è quasi letteraria. Credo che Amici sia uno dei programmi a cui tiene di più; è, a tutti gli effetti, come la preside di una scuola».
Sabato champagne, hai detto, è stato un modo per fare ordine nella tua testa. Una cosa stupida, invece, che cosa rappresenta?
«Ho scritto Una cosa stupida poco dopo l’uscita di Sabato Champagne, in tre mesi praticamente, durante l’estate del 2024. E prima di scrivere Sabato champagne, non avevo mai pensato di scrivere romanzi. Anzi, pensavo che avrei scritto unicamente saggi. Con Sabato champagne, ho unito le due cose: romanzo e saggio. Quando l’ho presentato, in tanti mi hanno detto che erano incuriositi dalla parte più romanzata. E così Una cosa stupida è stata l’occasione per fare un romanzo puro, per capire se questa cosa che diverse persone mi avevano detto fosse effettivamente vera».
E com’è andata?
«Mi sono trovata molto bene. Ovviamente, come dicevamo anche prima, ci sono delle parti più o meno autobiografiche, ma quelle penso che sia normale inserirle. È molto più facile partire da cose che conosciamo che da cose che non abbiamo mai vissuto».
Che rapporto hai con la pagina bianca?
«Per fortuna ottimo. Non ho mai vissuto nessun blocco. Credo, anzi, di soffrire di una logorrea incessante. Il mio problema, semmai, è il troppo. Adesso sto facendo questa rubrica quotidiana su Domani, che ha poche battute, ed è una sfida: mi sto esercitando sulla riduzione di quello che scrivo, che per me è una cosa inedita. Certo, le idee non ci sono tutti i giorni. Però il mio problema, più che la pagina bianca, è la pagina scritta».
In che senso?
«Odio rileggermi».
Con chi edita che rapporto hai? Sei gelosa di quello che scrivi?
«Per niente. Proprio perché odio rileggermi mi affido completamente a chi edita. Questa cosa, ovviamente, vale finché l’editing non diventa uno strumento per farti dire un’altra cosa. Con questo libro, ho avuto la fortuna di lavorare con una editor che si chiama Francesca Cianfrocca, che è stata bravissima. Penso che abbia migliorato tutto. Viva gli editor bravi, è una fortuna che ce ne siano ancora».
Ci sono delle firme che, crescendo, hai seguito con piacere?
«A me piace moltissimo Walter Siti, sia come romanziere che come editorialista. Scrive anche lui su Domani. Mi sembra che abbia sempre un punto di vista originale. Di rado sono d’accordo con lui. E se mi piace leggerlo è soprattutto per questo. Un altro scrittore che amo follemente è Mario Fillioley. È un insegnante e scrive dei racconti bellissimi sulla scuola. Con lui sono quasi sempre d’accordo e mi fa molto ridere».
Nelle cose che hai scritto e che scrivi, la televisione viene fuori come una linea temporale: mentre succede qualcosa di epocale, di importante, c’è sempre un programma in onda. Ricordi che cosa stavi vedendo durante l’11 settembre?
«Io non stavo guardando la Melevisione, come molti nostri coetanei. Stavo guardando MTV. Da piccola, avevo questo registratore della Fisher-Price, quindi proprio per bambini, con cui mi creavo delle playlist. Mettevo la cassetta e registravo le canzoni che mi piacevano di più. Mi ricordo che ero davanti alla tv, che stavo guardando non so che video, e mi ricordo la reazione di mia madre, che è venuta da me e mi ha detto di cambiare canale».
Suoni ancora la batteria?
«A Roma ho un basso e una chitarra. La batteria è giù, a casa dei miei. Non ho mai pensato di portarla a Roma. L’ultima volta che ho suonato con una band è stato l’anno scorso, con mio fratello e un cantautore che si chiama Giulio Pelio; abbiamo fatto un po’ di date in giro, e io suonavo il basso».
Progetti di tornare a Catania o pensi di rimanere a Roma?
«In questo momento, tornare giù sarebbe un suicidio professionale. La Sicilia non è solo sud, la Sicilia è un’isola. Ed è lontana da tutto. Basta quel pezzettino di mare che la separa dall’Italia per farla diventare distante da qualsiasi cosa. Io, poi, non viaggio volentieri. Se potessi scegliere, non ti nascondo che vivrei molto volentieri a Catania. Non ho mai avuto quel senso di rifiuto che alcuni provano per il luogo da cui provengono. Catania è una città grande, non ti senti in provincia. E poi mi diverto sempre tantissimo a Catania. C’è un senso dell’umorismo pazzesco. Un po’ come a Napoli».
Tua nonna materna, se non sbaglio, era napoletana.
«Sì, e la famiglia di mio padre è divisa tra Palermo e Napoli».
Riprendo il format di Claudio Sabelli Fioretti, quello della torre, e ti chiedo: Massimo Bernardini o Mia Ceran?
«È difficile. A me Mia Ceran piace tantissimo. Anzi, tantissimissimo. E penso che sia stata bravissima a prendere le redini di TvTalk. Bernardini è quello che l’ha inventato. Non ha senso buttarlo giù dalla torre… Però si è autoescluso andando in pensione, quindi dai, butto giù lui».
Arancino o arancina?
«Dovrei dire arancino perché a Catania si dice così. La mia tesi su questa faida è che si tratta di due cose diverse. L’arancino a Catania è un po’ più a punta, l’arancina a Palermo è un po’ più tonda e poi è fatta con il riso allo zafferano. Si risolve così, capendo che sono due cose diverse. Io preferisco l’arancina, per me è più buona».
Saranno famosi o Amici di Maria De Filippi?
«Tengo Saranno famosi. La prima edizione è indimenticabile, un po’ come il primo Grande Fratello».
Che cosa hanno in comune la musica e la scrittura?
«Per me sono sempre state estremamente vicine come forme di espressione. In entrambe, vince la mia logorrea. Mi è sempre piaciuto fare tanto, sia nella musica che nella scrittura. Ed è una cosa istintiva. A un certo punto ho capito che la scrittura, contrariamente alla musica, poteva diventare il mio lavoro. E poi per entrambe vale la regola del: non deve essere una forzatura. Non ha senso concentrarsi unicamente sull’effetto che possono avere su di te».
Ci sono cose che hai scritto e che hai deciso di tenere per te?
«Mi piacerebbe dirti che ho delle cose segrete, ma la verità è che non ho nessun senso della privacy. Tutto quello che ho scritto, in un modo o nell’altro, è stato pubblicato. Quando scrivevo da bambina, non scrivevo il diario segreto; mi inventavo delle riviste pensate per essere lette da un pubblico. Fantasticavo sugli attori di Harry Potter. Quando ho cominciato a scrivere online, più di quindici anni fa, ho pubblicato i miei racconti su un blog. Quindi no, ripeto: non ci sono segreti. Ci sono delle cose che voglio scrivere e che non ho ancora scritto, questo sì».
Credi che questa mancanza di privacy, questo essere costantemente esposta, sia in qualche modo una conseguenza dell’essere cresciuta circondata da un certo tipo di televisione? Ecco, prima citavi il Grande Fratello. Mi sembra l’esempio perfetto.
«Credo che dipenda sia da questa che dici tu sia, poi, dalla casa in cui sono cresciuta. Mia madre è un architetto e, credimi, non concepisce le porte. Non ho mai avuto una stanza tutta mia. Quando torno a casa adesso, dormo su un soppalco che è aperto, che dà sul suo studio. E poi, ripeto, non ci sono le porte. Non per modo di dire: letteralmente. E forse è per questo che non mi vergogno, che non ho problemi nel mostrarmi o nel raccontarmi. Quella fase che citavi tu è stata una fase fondamentale per la televisione. Anche perché in quel momento la televisione parlava a tutti: grandi, piccoli e adolescenti».
Di che cos’è, allora, che ti vergogni?
«Di chiedere soldi, tantissimo. Che qualcuno possa pensare che gli sto chiedendo un favore, che si senta questo spettro della raccomandazione, che è una cosa che nel nostro lavoro c’è sempre: il santo in Paradiso, l’amico giusto. Questo è un lavoro che si fa passo dopo passo, e quando qualcuno mi associa ad amicizie di convenienza mi imbarazza veramente tanto».
Di che cosa senti di aver bisogno, adesso?
«Sicuramente di una casa più grande. Perché la vita da scrittori bohémien è bellissima, per carità, però quando arrivi a 33 anni e hai un unico tavolo per mangiare, scrivere e guardare la tv diventa difficile. E poi, in generale, penso di aver bisogno di un’altra cosa»
Cosa?
«Un po’ di stabilità».
Foto di Claudio Sforza. Grafica di Manuel Bruno.