di Gianmaria Tammaro
Il rapporto con sua sorella Ludovica, le prime esperienze come attrice; la sfida di Una figlia e de Il mio nome è vendetta e poi il set di Squali. La scelta di recitare, l’importanza del pianto e del ritrovare sé stessa; l’infanzia a Sora e i ricordi a cui è più affezionata. Il legame che la unisce alla sua casa e ai suoi genitori. L’intervista.

Quando ha bisogno di chiedere consiglio a qualcuno, Ginevra Francesconi chiama sua sorella Ludovica. Sono entrambe attrici e con il tempo hanno imparato a trovare l’una nell’altra un porto sicuro. Ginevra ha sempre recitato. Ha cominciato quando era poco più che una bambina. All’inizio, mi spiega, era un gioco. Poi però è diventato qualcosa di più. Quando le chiedo cosa, lei mi risponde: la normalità. Per Ginevra la normalità è una dimensione fatta di sensibilità e empatia, dove contano gli affetti e la famiglia, dove gli amici possono essere una casa e dove i ruoli diventano una possibilità per conoscersi meglio e per mettersi alla prova.
In Squali di Daniele Barbiero, ora al cinema con Eagle Pictures, Ginevra ha lavorato con i suoi coetanei. È stata, mi dice, un’esperienza divertente, proprio perché nuova. Con The Nest, uscito nel 2019, ha fatto il suo esordio sul grande schermo, mentre con Il mio nome è vendetta, uscito nel 2022, e Una figlia, uscito quest’anno, ha fatto i conti con sé stessa e con i propri limiti. Allenandosi, studiando, calandosi in situazioni in cui non si era mai trovata prima.
Piangere, mi spiega, è un modo per liberarsi dai pensieri in eccesso, per ritrovare il proprio centro. La felicità, invece, arriva all’improvviso, in modo quasi inaspettato. Ed è importante, allora, riuscire ad apprezzarla e a riconoscerla. Nel suo futuro, Ginevra vede un percorso in crescita, sincero e ragionato, con i suoi tempi e le sue necessità. Non nasconde che le piacerebbe passare dietro la camera, un giorno. Sa che ogni esperienza, alla fine, fa parte di un quadro molto, molto più ampio.

Com’è andata l’anteprima di Squali alla Festa del Cinema di Roma?
«Poter vedere per la prima volta i progetti finiti con il pubblico in sala è un’emozione impagabile. Su questo ci sono pochi dubbi».
Ti sei riconosciuta sullo schermo?
«Ammetto che è stato particolare».
Particolare come?
«È stata la prima volta che mi sono rivista in Squali e mi sono sentita con un accento e una cadenza diversi dal solito. Quindi, sotto un certo punto di vista, è stato quasi dissociante. Però il film mi è piaciuto; ho interpretato un ruolo abbastanza nuovo per me. Spesso sono molto autocritica».
E questa volta?
«Questa volta mi sono concessa un po’ di orgoglio. Ecco, mettiamola così».
È difficile essere buoni con sé stessi?
«Probabilmente sì, è più difficile di quanto si possa pensare. In questo mestiere, finisci per riguardarti molto tempo dopo il set. E durante quel periodo, cresci, cambi, diventi qualcun altro. Quando ti rivedi, trovi una persona che non sei più. Magari, non so, pensi di non aver preso le scelte giuste, ti convinci che avresti potuto fare diversamente una certa scena. E quindi sei più critica, meno clemente. È un lato che va smussato; non ha senso essere così duri con sé stessi».
Che cosa è importante fare?
«A volte bisogna solo essere pronti ad accettare quello che vediamo e a capire che ciò che notiamo noi, soprattutto le cose negative, gli altri non lo prendono nemmeno in considerazione. Parlo per me, per carità, ma so che vale anche per altri colleghi».
Squali è stata una delle poche volte in cui hai recitato con i tuoi coetanei.
«Sì, esatto. Per una volta non sono stata la figlia di nessuno. (ride, ndr) Anche per questo Squali è un’esperienza che non riesco ad avvicinare a nient’altro. È stato un set estremamente divertente. Nel film, sono state inserite diverse scene dove ridiamo e scherziamo. E molte cose, credimi, erano reali. Per farti un esempio, in alcuni momenti abbiamo giocato a questo gioco, Ninja, in cui devi colpire le mani dell’altro. Ecco, eravamo così fissati che alla fine è stato montato nel film. Ogni volta che tornavo a casa, ero veramente felice. Rivedere quelle scene è stato quasi commovente. Perché sono vere, genuine, davvero nostre».
C’era un’atmosfera da gita scolastica?
«Assolutamente sì. Parte del film è stato girato in Veneto, quindi ci siamo trasferiti lì per diverso tempo».
Ne Il mio nome è vendetta di Cosimo Gomez sei irriconoscibile. Quanto è utile, per un ruolo, trasformarsi fisicamente?
«Ero più piccola, all’epoca. Quelli che hai visto sono i miei capelli, non è una parrucca. Tagliarli è stato quasi un trauma, credimi. Li ho sempre cambiati in un modo o nell’altro. In Squali me li hanno scuriti, ora sono vicini al biondo. Sono elementi che ti permettono di calarti completamente in un ruolo».
Visivamente ne Il mio nome è vendetta ricordi molto la Mathilda di Léon.
«Sicuramente è stato uno dei riferimenti più importanti».
Tu lo avevi già visto prima di girare?
«Sì, ed è anche uno dei miei film preferiti. E infatti ero felicissima di poter interpretare un personaggio che, in qualche modo, si rifaceva a Léon. Avevo paura, non te lo nascondo, per l’eventuale confronto. Ma è stata la spinta decisiva che mi ha convinta a dare il massimo».
Continui a fare boxe?
«No, ti dico la verità. Dopo quel film sono andata avanti per un po’, mi sentivo spericolata, ma poi mi sono fermata».
Spericolata in che senso?
«Pensa che ho deciso di lanciarmi con il paracadute da un aereo due mesi dopo le riprese. Non so che cos’è scattato dentro di me, ti giuro (ride, ndr)».
All’epoca eri maggiorenne?
«È stato il mio primo set da maggiorenne, quello de Il mio nome è vendetta».
Il lancio con il paracadute è stato un mondo per festeggiare?
«Forse sì».
L’hai fatto da sola?
«Ho costretto un mio amico a seguirmi».
Che cosa ricordi della tua infanzia a Sora?
«Mentre parliamo sono a casa dei miei genitori, quindi sono a Sora. Ricordo la semplicità di ogni giorno e anche la leggerezza. Sora è sempre stato un posto in cui non ho mai sentito nessun tipo di pressione. Siamo in campagna, circondati dalle montagne. Si respira una specie di calma, qui. Ed è stato questo che mi ha dato la possibilità di fare altro, di spostarmi».
Ti piacere ripensare al passato?
«Lo faccio quasi quotidianamente e credo che sia proprio per questo che riesco ad apprezzare quello che ho oggi: dove mi trovo, la vita a Roma, il mio lavoro. E poi, quando posso, torno sempre dai miei genitori».
Dov’è casa tua oggi?
«Sai che non lo so? Chiaramente il cuore è lì, a casa dei miei genitori, dove ho trascorso la mia infanzia. Ma poi ci sono le esigenze della vita, che ti portano a delle scelte e in altri posti. Sono divisa. Cinquanta e cinquanta, ti direi».
Non è stata pesante la dimensione del paese, con il suo provincialismo, quando hai cominciato a recitare?
«È un argomento che si può vedere sotto tantissimi punti di vista differenti. Per come sono fatta io, vivo tutto abbastanza tranquillamente. Non mi faccio condizionare dai giudizi degli altri. Recitare ha sempre fatto parte della mia realtà, della mia vita di ogni giorno. È la mia normalità. E se qualcuno non capisce questa normalità, non mi faccio troppi problemi. Indubbiamente Sora è una città piccola, dove forse non c’è un’idea diffusa di cinema come mestiere. Al liceo, poi, non ne parlavo tanto. Sono stata abbastanza riservata. Non me ne sono mai vantata. Forse anche per questo motivi gli altri erano abituati all’idea».
Che rapporto hai con tua sorella, Ludovica?
«Condividiamo la stessa passione e lo stesso lavoro da sempre. Questo crea sicuramente una complicità ulteriore. Siamo molto diverse dal punto di vista caratteriale e viviamo il nostro mestiere in modo differente. Ed è un bene. Perché così possiamo confrontarci. Ludovica è la prima persona che chiamo quando ho bisogno di un consiglio. So che è la voce più razionale e sincera».
Non c’è mai stata un po’ di rivalità tra di voi?
«Non abbiamo fatto spesso provini per lo stesso ruolo. Visto che siamo molto diverse, come ti dicevo, non siamo mai entrate in competizione. Viviamo questi momenti nel modo più normale possibile. Anzi, siamo l’una fan dell’altra: ci facciamo il tifo a vicenda. Credo che dipenda dal fatto che abbiamo iniziato a recitare da bambine».
Quando eri più piccola, facevi la modella.
«Sì, sia io che mia sorella sfilavamo. Nostra madre fa la stilista di abiti da sposa. Quello è stato il primo impatto con il mondo esterno, con un pubblico, per noi. Però anche in questo caso abbiamo vissuto tutto come un gioco, senza pressione. Nostra madre non ci ha mai chiesto di farlo; eravamo noi che ci divertivamo. E poi era un momento per stare insieme».
Com’eri da bambina?
«Abbastanza timida e chiusa. Queste esperienze mi hanno aiutata ad aprirmi e a sentirmi più a mio agio con gli altri».
In Una figlia di Ivano De Matteo, hai interpretato uno dei ruoli più difficili della tua carriera. Come hai trovato una distanza rispetto a quell’esperienza?
«Una figlia è stato il primo progetto che ho vissuto con una consapevolezza diversa. Quello che ho interpretato è un ruolo maturo, da donna. Per carità, il mio personaggio è giovane, una ragazza. Eppure per l’impegno che ha richiesto, per i luoghi in cui mi ha portato, mi sembra appartenere a un’altra categoria. Parlo proprio del modo in cui l’ho vissuto. La storia di Una figlia è una storia molto forte e ci sono delle scene, come quelle in carcere, che mi hanno insegnato tanto a livello umano e attoriale. Una cosa simile è successa anche con Il mio nome è vendetta. Ovviamente ci sono delle differenze, ma mi ha comunque dato la possibilità di imparare».
Come vivi il giudizio degli altri?
«Sono una persona veramente discreta. Non ci penso. Non mi faccio problemi per il modo in cui una certa critica o un certo pubblico mi definiscono. E questo perché tutto si ricollega all’autocritica. Io penso di essere stata sempre molto fortunata. I ruoli che ho interpretato mi hanno permesso di farmi conoscere. Quando si è più piccoli, si diventa – si può diventare, anzi – il fenomeno del momento. Crescendo, alcune cose sembrano scontate. Tutto fa parte del gioco, no? Si affrontano nuove sfide. E con queste sfide, arriva la percezione differente del pubblico».
Ti capita mai di arrabbiarti per un giudizio o per una critica?
«Onestamente?»
Onestamente.
«No, credimi. Ho imparato a vivere determinate esperienze e determinate situazioni con tranquillità. Per ora, poi, non mi è ancora successo di ricevere critiche e giudizi brutali. Non so dirti se è fortuna o se sono sempre io ad affrontare le cose in un certo modo. Dovesse capitare, non penso che mi arrabbierei».
No?
«Molto dipende dal momento di vita e di carriera in cui ci si trova. Se sei soddisfatta, sono veramente poche le cose che ti toccano».
Tu sei soddisfatta in questo momento?
«Fa paura dirlo, ma sì, sono soddisfatta e orgogliosa del percorso che ho fatto e che sto facendo; soprattutto, sono felice del modo in cui lo sto vivendo e di quello che, ogni giorno, sto imparando grazie a questo mestiere».
Che cosa hai comprato con il tuo primo stipendio?
«Lo vuoi sapere veramente? (ride, ndr)»
Certo.
«L’apparecchio per i denti. (ride, ndr) Avrò avuto 15 o 16 anni. In generale, non faccio mai grandi spese».
Pensi che ci saranno altri momenti come quello del lancio con il paracadute?
«Onestamente ho una grande passione per i velivoli, per gli aerei. E volevo prendere anche il brevetto da paracadutista».
Però?
«Però mio padre mi ha, diciamo così, “consigliato gentilmente” di non farlo (ride, ndr)».
Sei alla ricerca di adrenalina.
«Sì, direi di sì».
Una scarica di adrenalina c’è anche quando si recita?
«Assolutamente. Recitare è come mettersi a nudo, mostrarsi completamente all’altro. Nelle scene più particolari e più distanti da noi, dobbiamo affrontare i lati più oscuri del nostro carattere. E attenzione: bisogna farlo in pubblico, davanti a un gruppo di sconosciuti. Ed è una cosa che serve. A me, perlomeno, è servita».
Ti sei iscritta, poi, a Criminologia?
«No, non l’ho fatto. Però è una cosa che mi appassiona molto; sono sicura che, prima o poi, lo farò. Serve il momento giusto. A volte ci penso, sai?»
A cosa?
«Forse avrei potuto gestire le cose diversamente. Non mi pento, intendiamoci. Anche perché sono sicura che c’è sempre un modo per recuperare. Studiare Criminologia mi sembra una decisione più difficile di tante altre. Ci vuole coraggio e io, ora, sto aspettando di avere il coraggio giusto per farlo».
Di che cosa hai paura oggi?
«Tante, troppe cose. Ho paura di non essere sincera con me stessa in alcune situazioni. Ho paura di mentire per non affrontare dei sentimenti e delle emozioni. Mi analizzo così tanto che alla fine non faccio altro che pensarci. Mettere una distanza con me stessa mi terrorizza».
È una cosa che ti è capitato di notare negli altri?
«Mi è capitato di incontrare delle persone che evitavano di affrontare la verità, sì. E a causa di questa cosa, vivevano un vero e proprio tormento».
Che cosa desideri?
«Rimanere lucida e razionale, soprattutto sotto questo punto di vista. Se penso al futuro, penso alla mia salute mentale».
Dove vai quando vuoi essere tranquilla?
«Famiglia, amici, amore».
In questo ordine?
«Oddio, dipende dal momento. Non c’è per forza un ordine. Quando sono a Roma, sicuramente i primi sono gli amici. La famiglia, poi, appartiene quasi a un livello a parte».
Quando hai bisogno di un parere sul tuo lavoro, chiami tua sorella. Chi è, invece, la prima persona che chiami quando vuoi ritrovare la pace?
«Sempre mia sorella. Oppure mia mamma».
Con i tuoi genitori, in generale, che rapporto hai?
«Uno bellissimo. Con mio padre condivido questa passione per il volo. Prima di andare in pensione, mio padre collaudava elicotteri; lavorava nell’Aeronautica Militare. Da piccola, volevo fare il suo stesso lavoro. I miei genitori non fanno parte di questo mondo; prima che io e mia sorella iniziassimo a recitare, erano completamente estranei. Invece oggi ci sanno consigliare, sono sempre pronti ad ascoltarci. Mio padre è quello più razionale; mia madre, invece, è più istintiva».
Da chi hai preso di più?
«Da entrambi, ti direi».
Che tipo di silenzio c’è quando ci si butta da un aereo con il paracadute?
«Un silenzio mai provato prima. Un silenzio assoluto. Credo che sia impossibile paragonarlo a qualcos’altro. Non senti niente. Nemmeno il vento. Durante la caduta libera, c’è un rumore fortissimo. Ma poi, quando apri il paracadute, si ferma tutto. E in quel momento, puoi guardare ogni cosa da un’altra prospettiva».
Riesci a trovare la stessa distanza nella vita di ogni giorno?
«Ci provo. Penso che sia fondamentale. Io sono una persona molto emotiva. E tendo a farmi coinvolgere da tutte le situazioni, anche da quelle che non mi riguardano direttamente. Quando torno a casa la sera e sono da sola, provo ad ascoltarmi, a prendermi un minuto per trovare questa distanza dalle altre cose».
La sensibilità può essere un problema, a volte?
«In un certo senso sì. La sensibilità estrema può portare a delle paranoie inutili. La troppa empatia, sentire tutto quello che sentono gli altri, non è sempre necessaria. I pensieri innescano altri pensieri che a loro volta innescano altri pensieri, e alla fine diventa difficile ritrovarsi».
Qual era il tuo giocattolo preferito quando eri piccola?
«Avevo tantissimi peluche. In particolare, avevo un orsacchiotto che si chiamava Teddy. Come quello di Mr. Bean. Da piccola, ero innamorata del cartone e della serie».
Quella di Mr. Bean è una maschera abbastanza tragica. Molto solitaria.
«E forse è stato proprio grazie a Mr. Bean che ho imparato inconsciamente a convivere con la solitudine, trasformandola in uno spazio accogliente».
Ti capita mai di pensare di trasferirti all'estero? Non solo per lavoro.
«Ci penso, sì. Mi piacerebbe lavorare all’estero, anche per dei periodi più lunghi. Però non la vedo come una scelta definitiva».
Fa bene piangere?
«Mamma mia! (ride, ndr) Io ho proprio bisogno di piangere. Piangere mi libera, mi permette di scaricarmi. Fa uscire tutto, il pianto. I pensieri, la tensione, i dubbi. È una cosa che consiglio».
Tè o caffè?
«Tè. Io non bevo caffè. Non lo bevo mai».
Non ti piace o ti fa agitare?
«Non mi piace, e onestamente non credo di avere bisogno del caffè per riattivarmi».
Inverno o estate?
«Estate. Emotiva come sono, l’inverno rischia di essere troppo malinconico».
Ci sono dei ricordi in cui ti fa piacere rifugiarti?
«L’altro giorno stavo pensando a quando, durante la notte di San Lorenzo, con mio padre e mia sorella andavamo in giardino, ci stendevamo sulle sdraio, ci avvolgevamo nella coperta e guardavamo le stelle».
Ti mancano quei momenti?
«Molto. Ogni anno io e mia sorella non vedevamo l’ora di metterci a fissare il cielo. E poi un’altra cosa che mi manca sono i Natali in famiglia di quando ero bambina».
Quando si capisce di essere diventati adulti?
«È una consapevolezza che arriva piano piano. Si capisce quando senti più responsabilità, più controllo sulla tua vita. E non ti senti più giustificata per gli errori che commetti. Diventi adulta quando sei più onesta con te stessa».
Che cosa ti manca della tua infanzia?
«Mi manca, forse, l’idealizzazione del futuro. Era una bella sensazione».
Che cos’è, secondo te, il talento?
«A volte il talento può essere confuso con l’ambizione e la tenacia. E invece il talento è una cosa pura, non pensata, non mediata. Che non richiede sforzo, che c’è e basta. Per questo è importante bilanciarlo con lo studio e la preparazione. Il talento, se non viene scoperto e coltivato, rischia di andare sprecato».
Perché alla fine hai deciso di abbracciare completamente la recitazione?
«Fino a poco tempo fa, pensavo di non aver mai deciso, non davvero, di recitare. È quello che ho sempre fatto, fin da piccola. Per me è normale. E invece riflettendoci andare avanti su questo percorso e continuare a recitare sono scelte. Il cinema è stata l’unica costante nella mia vita. Ho provato varie cose: conservatorio, musica; sport. Ho deciso, e decido, ogni giorno».
Non c’è il rischio di rimanere sospesi, così?
«Non penso. Io mi trovo estremamente a mio agio in questo ruolo; non ti nascondo che un giorno mi piacerebbe passare dietro la macchina da presa. Ma non è un piano B, è un’evoluzione naturale del mio percorso».
Ti capita di prendere appunti?
«Lo faccio quasi ogni giorno. O scrivo o disegno. Soprattutto capita la sera. Scrivo quello che provo. Di solito, lo faccio quando sono arrabbiata o triste».
Succede spesso?
«Succede il giusto».
Dove sta, allora, la felicità?
«Non lo so... La felicità arriva all’improvviso, a volte in modo completamente inaspettato. Sta dentro di noi, nella nostra testa. In attesa».
E noi che cosa possiamo fare?
«Dobbiamo essere pazienti. E viverla fino in fondo quando arriva. Anche se dura pochissimo».
Foto: Erica Fava. Grafica: Manuel Bruno.