di Gianmaria Tammaro
L’esperienza di A Chiara, il David di Donatello come miglior attrice, il cambiamento dell’adolescenza, l’incontro con Jonas Carpignano. Il trasferimento a Roma e l’amore profondo per la Calabria e per il mare. E poi la sua famiglia, l’orgoglio dei suoi genitori, il rapporto con le sue due sorelle e con una sua nonna. Recitare per conoscersi e per stare con gli altri. L’intervista.
A Swamy Rotolo piace il mare. È cresciuta a Gioia Tauro, a due passi dal bagnasciuga. Quando le chiedo qual è il suo primo ricordo, mi racconta delle volte in cui andava al mare con sua nonna e mangiava fette di pane con il pomodoro “stricato”. Le chiedo che cosa significhi “stricato” e lei mi dice che è intraducibile. Swamy, in indiano, vuol dire amore. È un nome che le cugine più grandi di Swamy hanno consigliato a sua madre e che a sua madre è piaciuto subito.
Sul set di A Chiara, il film che le ha fatto vincere il David di Donatello come miglior attrice protagonista, Swamy ha imparato a conoscersi, a fare i conti con la sua frenesia, con la sua impulsività, e ad ascoltare. Quando riguarda il film di Jonas Carpignano, si emoziona sempre. Perché vede il suo cambiamento. Dopo aver finito le riprese di A Chiara, ha capito di non poter fare altro: le piace recitare; le piace muoversi nella dimensione del set, stare con gli altri e affidarsi. Ha paura di diventare adulta, mi dice a un certo punto. «Anche se, forse, lo sono già». E ha paura di fallire.
Quando era più piccola, si auto sabotava in continuazione. Crescendo, ha imparato a darsi una possibilità e a combattere l’ansia. Oggi vive a Roma, studia Comunicazione pubblica e d’impresa. Condivide casa con sua sorella maggiore e ha trovato la sua tranquillità nelle cose semplici. Il colore preferito di Swamy è il rosso. Si rivede completamente – anzi, intimamente – nel suo segno zodiacale, il Leone. Dice di essere dura, testarda e difficile. Non va più in discoteca, ma appena può balla da sola, a casa, ascoltando Adriano Celentano. Swamy è una dei talenti più giovani e grandi del nostro cinema; la sua interpretazione in A Chiara, così viva e viscerale, non è solo una prova: è una conferma.
A che anno di università sei?
«Al secondo».
Che cosa stai studiando?
«Comunicazione pubblica e d’impresa».
Invece con la recitazione come va?
«Ho seguito per un anno il corso di Gisella Burinato e adesso sto facendo da sola. Continuo a fare provini. A breve comincerò le riprese di un nuovo film. E alla Festa del Cinema di Roma presento Il Velo, il cortometraggio di Cristian Patanè».
In Calabria torni spesso o sei sempre a Roma?
«Ci torno, sì, ma per stare con i miei, per rivederli. Torno qualche giorno ogni tanto. Poi risalgo subito a Roma».
Non ti manca?
«Tantissimo. Per me la Calabria è una regione stupenda. Il mare mi dà un senso di libertà che non riesco a spiegare; non c’è nessun altro posto capace di farmi provare la stessa cosa. Quando arriva l’inverno, però, la Calabria si svuota. Vanno tutti via, per lavoro e per studiare».
Che dimensione è quella di Roma?
«In un certo senso è come la Calabria. (ride, ndr) Qui ci sono i miei amici e c’è anche mia sorella. Non sento la necessità di scendere spesso. Torno per vedere i miei genitori, come ti dicevo. E di loro sì, sento la mancanza. Roma è caotica. A volte è difficile avere a che fare con la sua confusione».
Tua sorella è più grande o è più piccola di te?
«Più grande. Ho due sorelle. Una ha 12 anni, l’altra 23».
Avete preso casa insieme?
«Sì, viviamo insieme. Stiamo un po’ lontane dal centro, a Tor Vergata; lei studia lì. La sera, quando esco, c’è sempre qualcuno pronto a ospitarmi o a riaccompagnarmi».
Lei cosa studia?
«Biologia. A breve si laurea. E poi inizierà la magistrale».
Siete sempre andate d’accordo?
«Sì. Abbiamo due modi di pensare abbastanza differenti: io sono più irruenta, lei invece è più calma e tranquilla. Ogni tanto devo costringerla a uscire. Sta sempre a casa a studiare. Vivendo insieme, la differenza d’età non esiste; siamo quasi gemelle. Mia madre ci ha cresciute così».
Dove tieni il David di Donatello che hai vinto con A Chiara?
«Giù in Calabria. Ce l’hanno i miei genitori, lo tengono loro. È in una teca di vetro, con tutti i premi che ho ricevuto. Mio padre e mia madre sono orgogliosissimi. È stata una bella soddisfazione, quella del David. È un ricordo prezioso».
Com’è andato il tuo primo incontro con Jonas Carpignano?
«È stato un incontro normalissimo, come se ne fanno tanti: ci siamo visti al bar, io ero accompagnata da mia zia, che ci aveva fatto conoscere; avevo 10 anni, non bevevo nemmeno il caffè. Ero una bambina e abbiamo fatto quei discorsi che si fanno con i bambini. E poi ci siamo rivisti direttamente sul set di A Ciambra, per la prima scena. Non è stato un provino. È stata più una chiacchierata. Jonas non fa provini; vuole incontrare le persone, capire che cosa gli possono dare».
Sul set di A Chiara, invece, eri un’adolescente.
«Sono passati cinque anni tra i due film. La mia adolescenza è stata abbastanza ribelle. Come ti dicevo prima, ho un carattere un po’ duro. A 14 volevo uscire la sera, fare tardi. Mi ribellavo, mi lamentavo, ma alla fine decidevano i miei genitori. Giustamente, direi. (ride, ndr) Questa ribellione è finita in A Chiara: Jonas ha insistito parecchio perché si vedesse».
L’esperienza del film ti ha in qualche modo calmata?
«Assolutamente sì. Più in generale, però, mi ha cambiata. A 17 anni mi sono trovata dall’altra parte del mondo da sola; ho fatto cose che i miei coetanei non facevano. E questo mi ha portato – mi ha costretto, anzi – a maturare rapidamente».
Credi che quest’esperienza abbia creato una distanza tra te e i tuoi coetanei?
«No, questa cosa non l’ho sentita. Sono rimasta una ragazza della mia età. Non sono cambiata così drasticamente. E poi i miei amici mi hanno trattato sempre nello stesso modo. Non mi hanno mai visto come “quella che ha fatto il film”».
Con la vittoria del David, invece, che cambiamenti ci sono stati?
«Non credevo in me. Durante le riprese, pensavo di non essere all’altezza. Anzi, pensavo di non essere all’altezza prima ancora di iniziare a girare, e avevo una paura enorme di fallire. Il David mi ha fatto capire che non è così; mi ha fatto capire che il mio impegno può essere ripagato, che ho una possibilità. Ricevere un premio del genere, così giovane, è stata una soddisfazione enorme. Per il resto, però, la mia vita è rimasta uguale: sono sempre una studentessa; sono sempre una ragazza che prova a fare il cinema».
Che tipo di mondo è quello del cinema?
«Ho tanti amici che fanno il mio stesso lavoro. Io ho sempre cercato e trovato delle persone con cui costruire dei rapporti solidi. Se faccio amicizia con te, lo faccio perché lo voglio, non per un interesse. E sono stata abbastanza fortunata da incontrare persone che la pensano come me».
Non è un mondo chiuso?
«È sicuramente un mondo difficile. Non ti viene dato molto spazio. Però credo che, in parte, dipenda anche da te».
In che senso?
«Devi essere brava ad approfittare di ogni occasione, anche della più piccola; devi imparare a muoverti e a costruire una base solida da cui partire».
Dopo la vittoria del David hai ricevuto delle proposte?
«Ne ho ricevute diverse. Ma ho deciso di rifiutarle».
Perché?
«Perché non era quello che volevo fare. Jonas mi ha influenzato molto. Ho una visione di cinema simile alla sua. Voglio fare progetti con un senso, che mi piacciono, e non solo per motivi economici».
Quella di Io e il Secco che esperienza è stata?
«Anche in quel caso lavorare è stato semplice. Nonostante fosse la sua opera prima, Gianluca Santoni è stato bravissimo. Sapeva esattamente cosa fare. E poi la sceneggiatura era scritta veramente bene: c’era tutto; non ho dovuto aggiungere nulla. Ho studiato le mie scene e poi le abbiamo costruite sul set, come quella del bacio con Andrea Lattanzi».
Hai detto che, grazie ai film di Carpignano, ti sei trovata a viaggiare dall’altra parte del mondo. Hai fatto altre cose che non avevi mai fatto prima?
«Sembrerà incredibile, ma lavorare ad A Chiara mi ha permesso di conoscere meglio mio padre, visto che anche lui ha una parte del film. Avevamo un rapporto un po’ teso prima: io adolescente, lui con il mio stesso carattere. Grazie al film, ci siamo sbloccati. Abbiamo instaurato un dialogo più tranquillo. Mio padre ha imparato ad avere una comunicazione più lineare, più immediata, con me».
Che rapporto hai, ora, con i tuoi genitori?
«Li vedo come persone. Nelle mie note ho questa frase, l’ho scritta – credo – quattro anni fa: anche i miei genitori stanno vivendo questa vita per la prima volta. Ora ho una visione completamente diversa su di loro. Non come quando ero adolescente. Li ascolto di più, provo a mettermi nei loro panni».
È una cosa che fai spesso, quella di prendere note?
«Sì, abbastanza spesso. Me l’ha consigliato la mia psicologa. Quando sono arrabbiata o triste, appunto quello che provo e che mi è successo».
Tieni un diario?
«No, sono o note sul cellulare o delle lettere che rivolgo alla me stessa bambina. Cerco di riconoscere il mio passato».
Tra i complimenti che hai ricevuto dopo la vittoria del David, ti hanno colpito particolarmente quelli di Antonio Capuano, il regista. Perché?
«Ci siamo incontrati all’hotel dopo la premiazione, e lui ha iniziato a dirmi che ero stata bravissima, che me lo meritavo. Tutto in napoletano. Anche Toni Servillo, alla cerimonia al Quirinale, mi ha detto la stessa cosa. E io non me lo sarei mai aspettata. Ero una bambina, ero un po’ persa. Però mi sono sentita a mio agio, accolta. Non ci sono emozioni più belle di queste, secondo me: sentirsi benvoluta e accettata e ricevere complimenti da persone che stimi, come Servillo e Capuano».
Hai detto che il baciamano di Eduardo Scarpetta ti ha portato fortuna.
«Penso proprio di sì. (ride, ndr) Ci siamo visti al photocall prima dell’inizio della cerimonia dei David, mi ha salutato, mi ha dato un bacio sulla mano e poi ho vinto. E ha vinto anche lui».
Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«Mi ricordo di quando, da bambina, andavo al mare con mia nonna, con cui ho un rapporto stupendo, e lei mi preparava il pane con il pomodoro “stricato”, che letteralmente vuol dire strofinato ma che non credo che sia traducibile. Poi mi ricordo che andavo a giocare nel cortile della mia bisnonna, che ho avuto la fortuna di conoscere; mi ricordo le ginocchia sbucciate, le risate, il vento».
Passavi molto tempo con tua nonna?
«Molto sì. Ma lo faccio tuttora. Appena torno a casa, vado da lei. Viviamo nello stesso palazzo. Lei è al piano terra e noi siamo al piano superiore. Mia nonna è come una seconda mamma per me».
I tuoi genitori ti hanno raccontato perché hanno deciso di chiamarti così, Swamy?
«Sono state le mie cugine più grandi a consigliarlo a mia madre. Swamy, in indiano, vuol dire amore. E a mia madre è piaciuto tantissimo. Mia sorella si chiama Grecia, come l’attrice Grecia Colmenares. Mia madre voleva darmi un nome come quello, straniero. E poi è una grande appassionata di cultura indiana».
Ti piace il cibo piccante?
«Sai che ho imparato ad amarlo ora che sono a Roma?»
In che senso?
«Mia madre prepara degli scatoloni per me e mia sorella, i famosi “pacchi da giù”. E in questi pacchi ci mette un sacco di cose piccanti. Ecco, quando torno a casa e sono stanca e non ho voglia di cucinare, mangio queste cose. E mangiandole mi sono abituata al piccante. Prima, in Calabria, lo evitavo».
Pensi di tornare a Gioia Tauro dopo la laurea?
«No, non credo. Voglio continuare a stare qui, a Roma. Voglio continuare a lavorare e a studiare. In Calabria ci tornerò sempre, per un motivo o per un altro».
Ti manca il mare?
«Da morire. Una mia amica, che sta giù, mi ha mandato una foto prima, mentre ero a lezione: si sta facendo il bagno, la maledetta».
Credi nell’Oroscopo?
«Un po’ mi rivedo nel mio segno, nel Leone. Sono dura, un po’ egocentrica e mi sento rappresentata. Non ci credo così tanto, per carità... Ma chi sono io per dire che non ha senso credere nell’Oroscopo?»
Che sfida è per una persona come te, così dura, così decisa, affidarsi completamente a un regista?
«Sono testarda, è vero. Però quando si tratta di recitare e di altre cose che non conosco bene mi affido totalmente a chi ne sa più di me».
Hai mai litigato con Carpignano?
«Sempre! (ride, ndr) All’inizio del film ero una bambina capricciosa, a metà film mi sono data una calmata e alla fine delle riprese ero un’altra persona. Io non lo volevo fare A Chiara».
No?
«Continuavo a dirglielo, a ripeterlo. Alla fine però mi ha convinta. Abbiamo fatto veramente tante litigate».
Vi sentite ancora?
«Assolutamente. Lo sento in continuazione. L’ho sentito stamattina per sapere come stanno le sue figlie, due bambine meravigliose; sono molto legata a loro».
Anche Carpignano fa parte della tua idea di casa?
«Sì, per me Jonas è come un fratello; mi fido totalmente di lui. In un momento di sconforto, lo chiamo per sapere che cosa ne pensa».
È sempre la prima persona che chiami?
«Dipende. Se è una cosa importante sì. Ma chiamo anche altre persone, non solo lui. Chiamo i miei amici, i miei genitori e il mio ragazzo».
Ne Il Velo, il cortometraggio di Cristian Patanè che presenti alla Festa del Cinema di Roma, indossi un vestito da sposa.
«Mi ha fatto sorridere come cosa. È la prima volta che ne ho indossato uno. Cristian è stato veramente bravo, mi ha dato carta bianca su molte cose, soprattutto sul mio personaggio. È stato semplice ma intenso».
Che cosa si impara su sé stessi interpretando di volta in volta personaggi diversi?
«Con A Chiara ho imparato prima a essere impulsiva e poi a gestire questa impulsività; con Il Velo ho imparato a riconoscere il dolore che talvolta l’amore può portare con sé».
Prima mi hai detto che hai deciso di non partecipare ai progetti che ti sono stati offerti dopo il David. È stato difficile rifiutare?
«Io penso che sia difficilissimo sia dare che ricevere un no. Ho fatto diversi provini e non sempre sono stata presa, e all’inizio vivevo questa cosa veramente male. La prendevo sul personale».
Ora hai trovato la giusta distanza?
«Forse sì. Ma non credo che riuscirò mai a non prenderla sul personale. È difficile distinguere le due cose; devi vivere l’attimo e gestire la singola situazione. Capisci che non andavi bene per quel ruolo, razionalizzi quello che è successo. Però non penso che possa essere una cosa automatica».
Che cosa hai imparato su di te?
«Ho capito di essere fragile. E ho capito che questa fragilità è enorme. Non piccola. Durante le riprese, ho avuto dei momenti intensissimi di pianto. Dopo ogni scena mi sentivo sollevata».
Piangere fa bene?
«Per me piangere è fondamentale. Io sfogo tutto piangendo».
Fai sport?
«Faccio sport. E ora mi piacerebbe fare MMA».
Perché proprio MMA?
«Mi affascina molto e secondo me può aiutarmi a livello mentale. Ma è una delle mie idee. Chissà se lo farò mai».
Tuo nonno, il padre di tuo padre, aveva fatto una specie di profezia. Aveva predetto che qualcuno della famiglia sarebbe diventato famoso.
«Sì, sì… È stato emozionante quando me l’hanno raccontato. Voglio dire, mi ha fatto una strana impressione. Mi ha fatto vedere quello che stavo vivendo da un altro punto di vista».
Che cosa significa, per te, fare l’attrice? Perché hai deciso di continuare?
«Quando ho finito A Chiara, ho sentito la necessità di tornare sul set. Volevo quella dimensione. E poi è un lavoro meraviglioso, che non è mai lo stesso. Cambia. E ti fa provare tante cose diverse. Ti permette di conoscerti più a fondo».
Qual è la tua parola calabrese preferita? Quella che ti capita di usare spesso?
«Non è una sola parola, sono due: “Focu meo”».
E quando la usi?
«Per qualsiasi cosa, in realtà. Sta bene in qualunque situazione. Letteralmente lo possiamo tradurre come “fuoco mio”, ma esprime una molteplicità di significati che non possono essere racchiusi in queste due parole».
Qual è il tuo colore preferito?
«Il rosso. Mi piace da sempre, fin da quando ero bambina».
Dove trovi casa?
«Con i miei genitori, come ti dicevo. Con i miei amici e con il mio ragazzo. La ritrovo con mia sorella. E ritrovo casa anche stando da sola al mare».
La solitudine ti fa paura?
«Sì, mi fa paura. Ma ci sto lavorando. Sto imparando ad apprezzarla».
Che cos’altro ti fa paura?
«Diventare grande. Ma forse già lo sono».
Che cos’è che ti rende felice?
«Le piccole cose. Anche stare sul divano a vedere un film. Andare a ballare... oddio, non più. Non ho più l’età per andare a ballare. (ride, ndr) Il giorno dopo non ce la faccio a muovermi».
Quindi sei diventata grande.
«Per alcuni aspetti sì. Ma non lo voglio ammettere».
Ballare da sola, a casa, ti piace?
«Certo. Lo faccio sempre. Lo faccio appena posso. Metto la musica e ballo».
Qual è la canzone migliore su cui ballare da soli?
«Una canzone qualsiasi di Celentano. Sono cresciuta ascoltandolo. Mio padre è un grande fan».
Qual è la tua canzone preferita di Celentano?
«Il ragazzo della Via Gluck».
Di che cosa senti bisogno, ora?
«Di una pausa. Un po’ di tranquillità. Non mi lamento, figurati. Ma a volte mi sembra veramente di essere travolta».
Come si riconosce la tranquillità?
«Non si riconosce. Anche se la stiamo vivendo, anche se la cerchiamo, non sappiamo mai di essere tranquilli. Ce ne accorgiamo dopo, una volta che la tranquillità è andata via».
Ti mette ansia questa inconsistenza?
«Molta ansia, sì. Ma è ansia buona».
Qual è l’ansia cattiva?
«Quando ti auto saboti. Quando eviti di fare qualcosa».
Ti capita mai di provare questa ansia cattiva?
«Sì, mi capita. Mi è capitato quando ho dovuto parlare davanti a tremila persone e pensavo di essere un’incapace. Però non mi fermo; vado avanti».
Dove si trova il coraggio?
«Lo trovi da sola. E lo trovi negli altri, nella bellezza che vedono in te».
Tu, invece, dove trovi la bellezza?
«Lo so, sono ripetitiva, ma la bellezza è stare con la mia famiglia».
Ti è capitato ultimamente di rivedere A Chiara?
«Mi è capitato la settimana scorsa. E l’ho visto con occhi diversi. Mi sono sempre giudicata duramente. Questa volta, invece, sono stata più buona con me stessa. Ci ho messo quattro anni per accorgermi di essere stata brava».
Che cosa pensi riguardandoti?
«Penso tante cose, non una sola. Sono sempre emozionata quando guardo A Chiara. Rivedo il cambiamento che ho attraversato, la differenza enorme che c’è tra l’inizio e la fine. Una cosa che, come ti dicevo, mi è successa davvero».
Se potessi dare un consiglio a quella ragazza, che cosa le diresti?
«Di non avere paura e di non auto sabotarsi. Lo facevo spesso, a quell’età».
Foto di Alessandro Cantarini. Grafica di Manuel Bruno.