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intervista
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11.10.2025

SUPERNOVA NR. 44: Carolina Pavone

di Gianmaria Tammaro

Il limbo dopo l’uscita di Quasi a casa, il suo primo film. Le difficoltà di trovare un nuovo equilibrio per cominciare a scrivere la prossima storia. L’importanza degli affetti e della famiglia. Il significato profondo di casa e felicità. Il cinema italiano e il cambiamento che parte da una nuova generazione di autori e autrici. Il rapporto con l’ispirazione. L’intervista.

Immagine articolo

Più di un anno fa veniva presentato alle Notti Veneziane Quasi a casa, il film d’esordio di Carolina Pavone. Da allora, mi dice Carolina, sono cambiate diverse cose. Ma, allo stesso tempo, il mondo sembra essersi come fermato. Si è ritrovata in quella situazione difficilissima, comune a molti autori e a molte autrici, in cui ha dovuto accompagnare in tour il film e provare, contemporaneamente, ad andare avanti. La felicità, mi dice Carolina, sta nel nostro piatto preferito. E lei, di piatti preferiti, ne ha diversi.

Quando le chiedo che cosa hanno in comune la cucina e il cinema, mi risponde: la voglia di creare felicità e benessere. Allora le chiedo dove sta, per lei, questa felicità. E lei mi dice: nell’arrivare alla fine della giornata ed essere pronta a perdonarmi gli errori che posso aver commesso. Carolina fa parte di una generazione di nuovi autori che sta cambiando – se poco o tanto dipende dai punti di vista – il nostro cinema.

Lo sta facendo dal basso, raccontando storie piccole, intime, che sanno di casa (casa, mi dice sempre Carolina, è dove ci sono le persone a cui vogliamo bene e che, a loro volta, ci vogliono bene). Ora sta scrivendo il suo nuovo film. Ogni giorno, mi confessa, affrontare la pagina bianca è una sfida. Ma nello studio ha conosciuto un alleato. Quando cerca l’ispirazione, guida. Perché guidare, mi spiega, la rilassa. A trent’anni guarda avanti, provando a convivere con sé stessa, con la voce che le ripete di non essere abbastanza, e a non prendersi mai troppo sul serio.

Com’è andato questo anno dopo l’uscita di Quasi a casa?
«Bene... Anzi, benone. Non è mai facile avere a che fare con la fine di qualcosa e questo in generale, non solo nel cinema. Quasi a casa è il mio primo film ed è molto legato a un momento particolare della mia vita. Insomma, bello sì, ma è complesso da affrontare».

Perché?
«Perché è difficile lasciare andare qualcosa quando poi devi comunque passare del tempo andando in giro a promuoverlo e a parlarne. Per carità: mi sono divertita tantissimo; sono andata in festival davvero meravigliosi grazie a Quasi a casa, come quelli in Grecia e in Olanda. Però a un certo punto, dopo aver finito un film, senti il bisogno di andare oltre per poter cominciare a lavorare a qualcos’altro. È stato un limbo, quest’anno. Ecco cosa. A metà di tante cose».

Che cosa ti ha aiutato ad andare avanti in questo periodo?
«Più che un cosa è stato un chi. Durante e dopo le riprese, è stata fondamentale la vicinanza di Maria Chiara (Arrighini, la protagonista del film, ndr), di Costanza (Coca Puma, autrice delle musiche, ndr) e di tutte le persone con cui ho collaborato. Vedere come stavano affrontando la fine del viaggio che abbiamo fatto insieme e poter confrontare le mie reazioni con le loro è stato veramente utile».

Che cosa hai imparato su te stessa?
«Cosa ho imparato… Ho imparato una cosa che dentro di me ho sempre saputo e che ho sempre cercato di fare, tanto nella vita di ogni giorno quanto nel lavoro: non prendermi mai troppo sul serio. Le cose vanno e vengono, esistono, poi finiscono. Il primo film è sempre il primo figlio, una battaglia continua, combattuta con talmente tanta foga che è difficile capacitarsi della sua fine. Rimani interdetto».

Però?
«Però, ecco, se non ti prendi troppo sul serio, diventa leggermente più facile andare avanti. Intendiamoci: anche non prendersi troppo sul serio ha i suoi lati negativi. Se non ti prendi mai sul serio, niente è importante, tutto è passeggero. Bisogna trovare un equilibrio, non esagerare e non confondere le cose. Un film è, per quanto importante, un film. Serve trovare una distanza tra sé e le cose che si fanno. Ecco, ho imparato anche questo: non sono solo quello che faccio; io sono Carolina al di là di Quasi a casa».

Secondo te, il cinema italiano tende a prendersi troppo sul serio?
«Non credo. Io prima stavo parlando di me. Se parliamo di chi fa cinema, prendendo in considerazione il resto della comunità, credo che prendersi sul serio diventi quasi fondamentale. Se ti riferisci ad altri registi, non lo so; non credo... Penso davvero che sia un problema solo mio. (ride, ndr)»

Dove nasce l’ispirazione?
«Purtroppo è una risposta che non dà alcuna soddisfazione, lo so, ma per quella che è la mia esperienza l’ispirazione nasce nei momenti in cui non la cerchi. È un paradosso, una risposta che do anche a me stessa e che è piuttosto dolorosa. A volte mi siedo alla scrivania, alla ricerca di un’idea, e non arriva. Poi mi metto in macchina e arriva. L’ispirazione è figlia di tutte le esperienze che facciamo nella vita, per questo ci vuole un po’ di tempo per scrivere un altro film: devi vivere la vita, vivere altre esperienze, per scrivere. O almeno è così per me».

Non sei la prima regista che guida per farsi venire un’idea. Di solito dove vai?
«Se è una buona giornata e ho solamente voglia di guidare – perché a me piace guidare, guidare per me è una forma di meditazione – faccio un giro qui vicino, non mi allontano molto. Quando è una brutta giornata, vado all’aeroporto. Arrivo a Fiumicino, mi faccio un giro lì e torno a casa».

Ti capita anche di guardare le persone che arrivano e che partono?
«Sì, mi capita. Sto quei quindici minuti che posso rimanere nella zona a tempo, mi guardo intorno e poi rimetto in moto la macchina. È successo poche volte, però è successo».

Che rapporto hai con la pagina bianca? Riesci a buttare giù qualcosa ogni giorno?
«No. Mi aiuto con la ricerca. Non sto scrivendo un film storico, ora come ora. Però lo studio e l’approfondimento mi servono molto. Proprio per mettere a fuoco il tema che voglio affrontare».

In che cosa consiste questa ricerca?
«Guardo altri film che hanno raccontato la stessa cosa e recupero i libri che ne parlano. Sono benzina per me, per mettere insieme le idee. La pagina bianca è terrificante; non ce la faccio a scrivere ogni giorno. Devo prima accumulare e solo quando due o più puntini si uniscono nella mia testa riesco a scrivere».

Quindi non eviti di vedere film di altri registi? Non hai paura di essere troppo coinvolta?
«Assolutamente no. Anzi, ci sono delle idee che mi sono venute proprio dopo aver visto un film. In particola una domanda che guardandolo mi sono posta e a cui voglio provare a dare una risposta con la mia storia. Personalmente provo ad andare spesso al cinema».

Fai una distinzione tra film italiani e film stranieri?
«No, no. Provo a guardare tanto cinema italiano, soprattutto i film che escono in sala, per capire che cosa sta succedendo, di che cosa si parla, quali sono i temi principali. In questo modo so in che contesto mi muovo, a chi vado a proporre le mie storie».

Che cosa hai capito sul cinema italiano?
«Che ci sono un sacco di voci nuove, molto interessanti, e che c’è un bel movimento di registi giovani che stanno riuscendo a fare film lontani da quelli che possiamo considerare come i canoni del nostro cinema».

Questa nuova ondata di cinema italiano, secondo te, come viene venduta dai distributori? Si fa fatica a raccontarla?
«Molta fatica, sì. Chi distribuisce deve vendere i film, e vendere in questo caso significa raccontare e condividere; deve capire come fare per coinvolgere gli spettatori prima dell’uscita effettiva di un’opera. Lo so, è una cosa complessa. Ma è importante farlo. Che ci sia un problema mi sembra abbastanza evidente. Per carità: ci sono dei distributori che fanno un lavoro pazzesco; penso a Lucky Red, che con Vermiglio, per esempio, ha preso le scelte più giuste. Molto spesso i film vengono presi e lanciati, fine. Nient’altro. Non c’è cura, non c’è visione».

Dove sta la bellezza di un buon film?
«Nella sua universalità. Un film che riesce a parlare di un mondo specifico e a rivolgersi a tutti è un film meraviglioso. Mi viene in mente Le città di pianura di Francesco Sossai. Non dobbiamo dimenticare da dove veniamo; dobbiamo trovare il modo per trasformare questa nostra specificità in un valore che parla a chiunque. È bello essere capiti da quante più persone possibili. Ridurre tutto a un elemento particolare, estetico o di contenuto, rischia di banalizzare lo sforzo di chi vuole raccontare una storia».

Dopo aver fatto un film e aver passato un anno in questo che hai chiamato “limbo”, quanto diventano importanti gli affetti?
«Sono fondamentali. Almeno lo sono per me. Non so proprio come avrei fatto senza la mia famiglia e i miei amici. Questo è un momento complesso, te lo dicevo: è appena finita una cosa per me importantissima, per cui ho lavorato tanto; devo ritrovare il mio equilibrio, devo scrivere e ho paura di non riuscirci. I miei genitori, per me, ci sono sempre».

Questo periodo di passaggio ha coinciso con i tuoi trent’anni.
«Sì».

Com’è andata?
«Bene? Non lo so… Voglio dire: è solo una cifra che cambia, non c’è altro. Non è una cosa a cui penso...»

No?
«In realtà ci penso, figurati; è una cosa che risuona dentro di me, che mi fa riflettere, che mi mette davanti ai miei limiti e ai miei traguardi: hai trent’anni, mi dico, e sei ancora qui; hai trent’anni e non hai ancora raggiunto l’obiettivo che ti eri data. È una voce con cui si impara a convivere».

Che cosa senti che ti manca oggi?
«Oddio... Non lo so... Ah no, aspetta, lo so! Me lo sono detta qualche giorno fa. E forse è una cosa che vale un po’ per tutto. Secondo me stiamo perdendo la capacità e la voglia di creare connessioni con gli altri, con le persone. Se vuoi, ci manca un senso di comunità. E io la soffro, questa assenza. Sento che ne ho bisogno, ma ho paura che sia una cosa che ci stiamo disabituando a fare. Vale sia nella vita che nel lavoro».

Secondo te perché?
«Stiamo sottovalutando – tutti, sia i singoli che la società nel suo complesso – il peso che hanno i social. Lo so, è una cosa che si dice sempre. Ma sono convinta che un’ora su Instagram sia come, non so, cento punti in meno per l’umore… Finisci per incazzarti, per provare risentimento per gli altri; finisci per pensare unicamente a loro e non a te stesso».

E a quel punto?
«A quel punto, sei senza forze ed energie. Non riesci a più camminare nel mondo con un’apertura per il prossimo, per ciò che non conosci; rischi di vedere nemici ovunque. Se scappiamo sempre, senza considerare gli altri, perdiamo il nostro contatto con tutto il resto».

Dov’è casa?
«Non è casa quella dove sono adesso, da dove ti sto parlando. Sono i miei genitori, i miei amici, ma ovviamente non sono solo loro. Essere a casa per me significa arrivare alla fine della giornata felice per chi sono, per quello che ho fatto, e pronta a perdonarmi per gli errori che ho commesso. Perché non sono quegli errori che mi definiscono. Adesso sembra uno spot per una crema femminile, lo so, ma per me è importante amarsi e volersi bene per quello che si è in un determinato momento».

Quanto è difficile arrivare a questa consapevolezza?
«Molto. Per tutti questi motivi che ti ho detto, per tutte queste cose che abbiamo oggi intorno. Ma anche più in generale, per quello che noi – le persone – siamo. È una lotta quotidiana, che va affrontata con persistenza e amore. Un po’ di tempo fa, ho messo una foto di me da piccola come sfondo del cellulare».

Perché?
«Così tutte le volte che mi butto giù, che mi dico di essere un fallimento e un disastro, mi basta guardare quella foto per ritrovare me stessa. Perché queste stesse cose non le direi mai a quella bambina. Sono cresciuta, sì, ma sono ancora quella bambina».

Dov’è la felicità?
«Oddio, Gianmaria… (ride, ndr) La felicità sai dove sta? Nel tuo piatto preferito».

E qual è il tuo piatto preferito?
«Non so se ne ho uno...»

Quindi non sei felice?
«Esatto! (ride, ndr) No, dai, la verità è che non ne ho uno solo ma diversi. Ho una passione malsana per le olive, mi danno felicità. Mi piace un bel piatto di pasta. La mia pizza preferita è salame e, indovina, olive. Ieri sera ho fatto una buonissima pasta e patate, che mi ha reso molto felice. E poi, ovviamente, per essere felici bisogna stare con le persone a cui vuoi bene e che, a loro volta, ti vogliono bene».

Ti piace di più cucinare per te stessa o per gli altri?
«Anche qui non voglio essere democristiana. Però quando fai un buon piatto e alle persone per cui l’hai preparato piace, provi una felicità immensa. Due sere fa, ho fatto un risotto alla zucca per due mie amiche e sono stata contentissima quando l’abbiamo mangiato insieme. C’è un altro tipo di felicità nel prepararsi da mangiare: cucini come se avessi ospiti, stando attenta a tutto, e poi ci sei solo tu, pronta a gustarti quello che hai fatto».

Che cosa hanno in comune la cucina e il cinema?
«Quando ero il Centro Sperimentale, Daniele Luchetti ci disse che fare un film è un po’ come cucinare un piatto».

Tu sei d’accordo?
«Non credo che ci sia una ricetta da seguire quando si fa un film; cioè, c’è dal punto di vista tecnico, ma per trovare la storia giusta non è così facile. Forse cinema e cucina condividono la stessa voglia di creare felicità, benessere, piacere e senso di accoglienza per gli altri e per noi».

Si parte sempre da sé stessi?
«Per me sì. E questo non vuol dire fare sempre film autobiografici. Significa trovare qualcosa di noi nella storia e nei personaggi che vogliamo raccontare. Ecco, ora che ci penso quest’anno ho imparato un’altra cosa».

Dimmi.
«Quando ero più piccola dicevo sempre una frase; dicevo: uno fa cinema e fa un film, e se quel film ha toccato anche il cuore di una sola persona allora ne sarà valsa la pena. Lo dicevo con grande orgoglio. E in parte sì, è vero. Però è bello anche quando quei cuori sono più di uno. Perché quello che vogliamo, alla fine, è raggiungere quante più persone possibili».

Foto: Aris Rammos, Thessaloniki IFF. Grafiche di Manuel Bruno.