di Gianmaria Tammaro
Dagli anni della ginnastica alla decisione di entrare prima al Centro Sperimentale e poi alla Silvio D’Amico. Dall’incontro con Marco Bellocchio, per Esterno Notte, al ruolo in Palazzina Laf di Michele Riondino, passando per Supersex e per la sfida di lasciare il segno in pochissimo tempo. Dall’amore per Roma al significato profondo di casa e affetti. E poi il teatro, andare in scena da sola e l’importanza della generosità. L’intervista.
Il primo ricordo di Eva Cela è legato a un sapore: il sapore di un tarallo al finocchio che mangiava da bambina, quando ancora viveva in Albania con i suoi genitori. È cresciuta in un paesino diviso tra il mare e la montagna, nella provincia di Chieti. A 8 anni si è iscritta a un corso di ginnastica e da quel momento ha cominciato ad allenarsi e a partecipare alle gare, finché non è entrata nella nazionale italiana e ha vinto la medaglia di bronzo ai mondiali del 2012. In pochissimo tempo, ha vissuto mille vite diverse. L’ultima che si è scelta, e che ha abbracciato completamente, è quella di attrice.
Ha studiato prima al Centro Sperimentale di Cinematografia e poi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico; ha lavorato con Marco Bellocchio in Esterno Notte e Michele Riondino in Palazzina Laf. È stata Lucia, la musa di Rocco Siffredi, in Supersex. E ha imparato ad andare in scena, in teatro, sia da sola che insieme a compagni di cui potersi fidare. Oggi, dice, non le manca niente, se non il tempo per stare con i suoi cari: suo padre e sua madre, le prime persone che chiama quando ha bisogno di un consiglio, le sue sorelle maggiori, che sono state un esempio per lei, e i suoi nipoti. È pratica, Eva. Preferisce fare, provarci, prima di fermarsi e parlarne.
Partiamo dall’inizio. Prima dell’amore per la recitazione, c’è stato l’amore per la ginnastica.
«Quando cresci in provincia, non hai tante cose da fare. Avere un hobby, come può essere praticare uno sport, è una salvezza. Io vengo da un paesino di cinquemila abitanti, e quando ero piccola i miei lavoravano. Lo sport è stata la mia via di fuga nonché, come ti dicevo, la mia possibilità di salvezza. Mi ha permesso di crescere in fretta e di imparare a stare fuori di casa. Ho iniziato a 8 anni e mi sono subito tesserata con la Federazione Ginnastica d’Italia. Poco dopo ho preso parte alle prime gare».
La ginnastica era qualcosa che ti piaceva, che volevi fare?
«In realtà è stato quasi un caso. Sono andata a una di quelle prove che si fanno, aperte al pubblico. Una mia compagna di classe mi aveva detto che aveva cominciato a fare ginnastica e io mi sono incuriosita. Mi sono iscritta e ho iniziato a frequentare il corso, dopo un po’ un’istruttrice mi ha voluto per la squadra con cui partecipava alle gare. Io ho provato e da lì è partito tutto. In un primo momento in Abruzzo, poi nelle Marche e alla fine, quando sono entrata nella nazionale italiana, in Lombardia. Ho cambiato diversi licei, sempre pubblici. Ed è stato molto faticoso».
Ti manca quel periodo?
«No, no. Non mi manca. Se nel 2019, quando sono entrata al Centro Sperimentale, ho lasciato la ginnastica è stato proprio perché avevo conosciuto un amore più grande. Dico sempre questa cosa che forse suona un po’ sciocca, ma quando ho fatto la mia prima masterclass, quando cioè mi sono ritrovata catapultata su un palco, tornavo a casa con il telefono sempre carico. Significa che non mi distraevo, che quello che facevo mi prendeva al 100%. Credo che renda abbastanza bene l’idea. Nella recitazione, ho trovato qualcosa di più profondo».
In che senso?
«Con la ginnastica, quando entri in pedana, vuoi o non vuoi, parla il tuo corpo. Il viso sorride, e guadagni punti anche in base a quello; ti lasci completamente andare alla tua memoria muscolare. Nella recitazione, non puoi farlo. Nella recitazione devi essere presente. C’è qualcosa che va oltre».
La recitazione e la ginnastica non hanno anche qualcosa in comune?
«La ginnastica mi ha dato una disciplina che mi salva ogni giorno. Spesso l’attore viene visto come qualcuno che si sveglia a mezzogiorno, che non fa niente, e non è vero. Io mi sveglio la mattina presto, mi alleno, ho la routine che ho imparato durante gli anni di studio. Per quanto riguarda il cinema, mi capita spesso di provare la stessa sensazione che mi avvolgeva durante le gare: ti giochi tutto in un minuto e mezzo, non di più; devi essere pronta a dare il massimo. Per quanto riguarda il teatro, invece, questo punto di contatto lo ritrovo nella preparazione che diventa necessaria per avere una certa resistenza».
Com’è nato l’amore per la recitazione?
«Quando mi allenavo, io vivevo in treno. Partivo dall’Abruzzo e finivo nelle Marche. E in treno studiavo e ascoltavo musica. Quando mi sono trasferita a Roma, per frequentare Scienze Motorie, sono stata colpita dal cinema. Vedevo ovunque i camper e i camion dei set, e io ero curiosa. Provavo sempre a capire che cosa stessero facendo. Ed è stata questa curiosità a farmi fare il primo passo. All’inizio ho fatto la comparsa: volevo sapere come funzionava un set, che cosa succedeva dietro le quinte; volevo capire se la mia passione e il mio amore erano genuini».
Perché?
«Un po’ perché non hai le comodità di quando fai parte del cast e un po’ perché ti devi confrontare con le sfide effettive del set. Nonostante ciò, ho amato follemente quel periodo. Anche se ero più una scomparsa che una comparsa: non mi ritrovavo mai; venivo sempre sfocata. In più di una produzione, venivo chiamata direttamente. Ne ho approfittato per guardare da lontano le scene, mentre venivano costruite e girate. Solo dopo ho preso informazioni e ho deciso di fare il Centro Sperimentale e la Silvio D’Amico».
Questa cosa, cioè fare sia il Centro Sperimentale che la Silvio D’Amico, è più unica che rara.
«Il Centro Sperimentale si concentra sul cinema, la Silvio D’Amico, invece, sul teatro. Ho scoperto solo in un secondo momento che frequentarli entrambi è una cosa piuttosto eccezionale. Però sono felice di averlo fatto. Crea come un ponte tra due punti di vista diversi».
Che differenza c’è tra la dimensione della scuola, quella della preparazione, e la dimensione del lavoro? Si vive in una bolla mentre si studia?
«Io sono stata molto aiutata dalla ginnastica, da quella doccia fredda di realtà. Per me questa bolla non esiste; è – e perdonami per il gioco di parole – una balla. Dipende da te, da quello che fai. E dipende dal tuo carattere. Ci sono persone che vedono nella scuola un rifugio, un posto dove rallentare; e ci sono persone, invece, che scalpitano, che non vedono l’ora di cominciare a lavorare, di andare avanti, e che si sono sempre date da fare. Io sono piuttosto difficile da contenere (ride, ndr). Avevo l’obiettivo di formarmi, perché per me la formazione è la base. Ma guardavo già all’esterno, alle altre esperienze».
Viaggiando così tanto, dove hai trovato la tua casa?
«Qualche tempo fa, ti avrei detto che casa mia non esisteva. Che mi sentivo cittadina del mondo. (ride, ndr) Adesso che sono adulta, ti dico che casa è andare dai miei genitori, stare con i miei nipoti, rivedere un amico di infanzia. A Roma ci sto bene, mi piace in tutti i suoi aspetti, anche quelli più assurdi. Sento che mi manca quando viaggio, quando vado altrove».
Non ti capita mai di arrabbiarti?
«Ho avuto un periodo della mia vita in cui non ho provato altro che rabbia. È durato più o meno sei mesi. Non mi ha portato a niente. O almeno, non mi ha portato a niente di buono. E da quel momento ho deciso di non arrabbiarmi più».
È un periodo vicino o lontano?
«Non è vicinissimo, no. Ma ero abbastanza consapevole e cosciente da non riuscire a immaginare una rabbia del genere. Rabbia e rancore non mi hanno portato da nessuna parte. Non ne vale la pena, sentirsi così».
Che cosa ricordi del primo incontro con Marco Bellocchio, che ti ha diretta per Esterno Notte?
«Il primo incontro è stato proprio un incontro. Non un provino. Abbiamo parlato del più e del meno. Ricordo che mi tremavano le gambe e che mi si era seccata la gola. Però parlavo; la mia parlantina non mi aveva abbandonata. Quando ho saputo che Pierfrancesco Favino aveva dovuto convincere Bellocchio per essere preso ne Il traditore, ho provato a fare la stessa cosa. A convincerlo. Credo che all’inizio mi avesse visto per un altro ruolo. Alla fine, quando ci stavamo salutando, io ho cercato di mettergli una pulce nell’orecchio: gli ho detto che davanti alla camera cambio, che sono un’altra persona, che se vengo truccata posso essere completamente diversa. E lui ha fissato un provino. Però ha precisato anche un’altra cosa: “Se non ti prendo (Eva Cela imita l’accento e il tono di Bellocchio, ndr) non è perché non sei brava”».
Poi il provino è andato bene.
«È stato bellissimo. Intenso. Ma non è arrivato subito. Tra il nostro incontro e il vero e proprio provino, è passato diverso tempo. In mezzo c’è stato il COVID. Me lo sono fatta raccontare anche dalla responsabile del casting, Gabriella Giannattasio. E lei mi ha detto che quando stavano scegliendo gli attori per la famiglia Moro Bellocchio ha detto qualcosa tipo: voglio vedere la ragazza, la sportiva».
Invece com’è stato lavorare con Michele Riondino per Palazzina Laf?
«Con Michele il processo è stato diverso. Ho fatto prima un self tape e solo dopo ho fatto il provino. A Via dei Salumi, a Trastevere: ogni volta che ci passo ci penso ancora. All’inizio ho fatto la scena con una spalla, poi con Michele. E mi sono resa conto che, quando abbiamo recitato insieme, è scattato qualcosa. Alla festa di fine riprese, mi è stato detto che mi avevano già adocchiato, fin dal self tape. Michele voleva vedermi di persona per togliersi ogni dubbio».
Hai fatto Palazzina Laf e Supersex contemporaneamente?
«Quello è stato un anno in cui i set si sono susseguiti, uno dopo l’altro. Supersex l’ho girato dopo l’estate, mentre Palazzina Laf poco prima».
In Supersex interpreti il personaggio di Lucia.
«Un personaggio un po’ al limite per me».
In che senso “al limite”?
«Perché ci sono all’inizio della storia, dovevo raccontare e mostrare poco e allo stesso tempo essere in grado di lasciare un segno. Praticamente dovevo mettere radici nell’immaginario tanto degli altri personaggi quanto del pubblico».
Lucia, di fatto, dà il via a tutto: alla storia della serie e al percorso del Rocco Siffredi interpretato da Alessandro Borghi.
«La Lucia adolescente, o comunque più giovane, l’ho interpretata io, mentre Jasmine Trinca ha interpretato quella adulta. E anche con Jasmine ci siamo confrontate e ne abbiamo parlato. È stato un bel lavoro».
Che tipo di paura è la paura che si prova prima di salire sul palco?
«Dipende. Quando devi salire sul palco da sola sono... be’, sono cazzi. (ride, ndr) Quando invece sei in un gruppo, puoi affidarti agli altri. E non è una cosa da sottovalutare. La prima volta che sono andata in scena con Risveglio di primavera ho dato tutto quello che avevo e mi sembrava di avercela fatta. Già il secondo giorno, però, mi sono accorta di quanto in realtà fosse profondamente difficile».
Che sfida è quella del teatro?
«Devi imparare a dosare e a capire che ogni replica è diversa. Io avevo dato tutto in una serata e il giorno successivo ero affaticata. Mi ricordo che durante i saluti finali mi sono proprio aggrappata alle mani dei miei colleghi; è stato il mio modo per ringraziarli. Se c’è una cosa che il teatro mi ha insegnato è l’importanza della generosità».
Tu ti sei mai sentita sola?
«Mi sono sentita sola subito dopo il Centro Sperimentale. Per questo ho deciso di andare avanti e di entrare alla Silvio D’Amico. Mi sentivo sola artisticamente. Avvertivo la necessità di avere accanto a me delle persone con cui poter crescere e con cui potermi confrontare. E non parlo solo della recitazione, parlo anche della scrittura come autrice. Dopo i tre anni del Centro, due in presenza e uno a casa per il COVID, mi sono sentita sola. E non è bello, sai? O meglio, è bello quando lo scegliamo, quando vogliamo rimanere soli. Ma quando non sai che direzione prendere non è per niente facile».
E adesso?
«Adesso non mi sento minimamente sola. Il compito delle scuole è anche questo, no? Quello di farti conoscere altri artisti, altri tecnici, altri attori. Ed è fondamentale. Perché quando finisci un percorso devi poter entrare in contatto con persone che parlano la tua stessa lingua».
Tu senti mai la necessità di rimanere sola?
«Sì, a volte sì. La sento quando devo studiare. Quando vado al cinema, per esempio per recuperare i film che sono passati a Venezia, ho bisogno di andarci da sola, perché per me quello è lavoro. La mattina mi alzo presto, mi alleno e poi alle 11 vado al Troisi per vedere un film. Alcune cose non riesco a condividerle, perché mi preoccupo per l’altro, per chi sta con me, per come si può sentire. Altre, invece, sono cose che mi appartengono, che sono unicamente mie. Così so stare da sola. Però mi capita di condividere anche letture con i miei colleghi: maratone di diversi testi per poi confrontarsi. Ultimamente ho legato moltissimo con il femminile, trovando tante amiche».
Quando hai deciso di lasciare la ginnastica per la recitazione, i tuoi genitori come hanno reagito?
«Io sono molto pratica. Quando ne abbiamo parlato, io ho semplicemente detto che stavo per iniziare una preparazione per i provini. E poi li ho informati quando sono stata presa al Centro Sperimentale. Preferisco fare; non mi importa dirlo».
Casa, mi dicevi prima, è dove ci sono i tuoi genitori e i tuoi nipoti. Che rapporto hai con le tue sorelle?
«Io sono la figlia più piccola. Le mie sorelle mi hanno cresciuta, in un certo senso. Sono state i miei primi esempi da seguire. Sono molto legata a loro. Un po’ perché, ovviamente, sono le mie sorelle. E un po’ perché mi fanno stare veramente bene. Quando sto con loro, mi sento serena. So che non devo dimostrare niente. Hai presente quella sensazione che provi quando hai accanto delle persone che sono genuinamente felici per te? Non è una cosa scontata. Ecco, per me quello è impagabile. Le mie sorelle non si impicciano, non insistono; mi lasciano in pace e, allo stesso tempo, ci sono sempre. Sono fortunata».
Chi è la prima persona che chiami quando hai bisogno di parlare con qualcuno?
«Mamma e papà. Prima mi alternavo: una volta chiamavo mamma, un’altra papà; ora che papà è in pensione se chiamo mamma c’è anche lui».
Che lavoro faceva tuo padre?
«Volgarmente il camionista. L’autotrasportatore».
A volte essere troppo sensibili può essere un limite?
«A volte sì. A volte mi rendo conto di notare troppe cose. È importante imparare a proteggersi. Io cambio in continuazione; sono sempre diversa. Con questo lavoro vivere un giorno spesso equivale a viverne cinquanta».
Con la responsabilità delle gare e della ginnastica, senti di aver perso qualcosa della tua adolescenza?
«In realtà no. Per me era molto più importante potermi godere la fine di una gara. Ho festeggiato dopo il mondiale, non prima. La festa era un momento di coronamento. Non un più. Anche la festa, per me, deva avere un senso. E quando ce l’ha, me la godo al massimo. E intendiamoci: non deve essere qualcosa di eccezionale; basta anche andare al McDonald’s e mangiare un panino dopo mesi di dieta».
Qual è il tuo piatto preferito?
«Preferisco il salato al dolce. Mi piace una buona pizza e una pasta semplice con il sugo. Insomma, mi piacciono quei piatti che mi permettono di distinguere i vari sapori. E poi adoro cucinare».
Dove tieni la medaglia di bronzo che hai vinto ai mondiali di ginnastica?
«A casa, nella mia cameretta. Insieme a tutte le altre coppe».
La tua cameretta è rimasta identica a come l’hai lasciata?
«Sì, nello stesso modo. La condividevo con una delle mie sorelle, la sorella di mezzo. Io dovevo svegliarmi prima di lei, ma non sentivo mai la sveglia. Mi odiava perché alla fine si svegliava anche lei».
Che poster avevi in camera?
«Molte fotografie delle gare, incluso il mondiale, e alcuni poster con Igor Cassina. E poi c’è anche il poster di un evento che avevo organizzato nel mio paese, San Vito Chietino. Grafica orrenda, fatta da me».
Sei mai tornata in Albania?
«L’ho lasciata quando avevo due anni. Quasi non me la ricordavo. L’ho rivista solo ultimamente, da adulta».
Che paese è San Vito Chietino?
«Un paese a metà tra il mare e la montagna. Scendi trecento gradini e sei al mare; se ti volti vedi la montagna. Io ricordo che andavo in spiaggia sempre a piedi, perché non avevo la macchina. C’è un’aria buonissima e anche il cibo è buono».
Qual è il tuo primo ricordo?
«Mi ricordo un sapore. Mi ricordo questo tarallo enorme, al finocchio, che associo alla me bambina di quando eravamo ancora in Albania, nella casa che avevano costruito i miei genitori. Mi ricordo questa tutina verde acqua e i capelli corti, biondini. E mi ricordo la forma di questo tarallo: più grande della mia faccia».
Quando è stata l’ultima volta che sei andata in Albania?
«Ci sono stata per alcuni matrimoni, ma non mi ricordo nemmeno chi si è sposato (ride, ndr). Ci sono tornata di recente per girare alcune cose; ci sono andata insieme a mia madre, che vedeva l’Albania con uno sguardo che io non avevo. Ora sto scrivendo una storia proprio su questo, sui miei genitori e sulle mie radici. Sono molto curiosa di conoscerle».
Di che cosa senti bisogno oggi?
«Non credo che manchi qualcosa, per fortuna. Sento di aver raggiunto ciò che prima mi mancava. Mi mancava una parte di formazione, mi mancava un equilibrio. Forse ciò che mi manca adesso è il tempo con la mia famiglia. È una cosa che riesci a capire e ad apprezzare solo crescendo».
Foto di Lucia Iuorio. Styling: Claudia Scutti. Hair&Mua: Elisa Zamparelli. Dress: Paco Rabanne. Grafiche di Manuel Bruno.