di Gianmaria Tammaro
L’amore per la pioggia e per il freddo, la decisione di fare l’attrice; l’importanza di essere indipendente e il legame profondo che la unisce alla sua casa. Olivia, la sua cagnolina, e il ruolo dei social. La responsabilità come sorella maggiore e il rapporto con i propri genitori. Le prime volte sul set, da sola, e la necessità di preservare i ricordi. L’intervista.
Per Ludovica Bizzaglia i ricordi sono importantissimi. Le permettono di lavorare, di tenere traccia di quello che ha fatto e delle persone che ha conosciuto; le danno modo di tornare bambina e di trasformarsi nei personaggi che deve interpretare. Ciò che contraddistingue la sua casa, che chiama rifugio sicuro, è il suo odore. Quando lo respira, sa immediatamente dove si trova e si sente tranquilla, coccolata e a suo agio. Bizzaglia ci tiene molto, alla sua casa. L’ha comprata da sola, con i suoi risparmi, tre anni fa. Ed è pronta a difenderla con le unghie e con i denti. Proprio come è pronta a difendere con le unghie e con i denti la sua indipendenza. Ha sempre voluto fare l’attrice, fin da bambina.
Il colpo di fulmine, mi racconta, c’è stato dopo aver visto il Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli. Da quel momento, ha insistito con i suoi genitori per fare un corso. Alla fine hanno ceduto. A 9 anni sono arrivati il primo provino e una felicità che non si può descrivere per un lavoro che aveva ancora la forma di un sogno. Bizzaglia mi dice che nella scrittura ha trovato un’amica e un modo per essere profondamente sé stessa e che ha sempre vissuto una parte della sua vita, con le sue prime volte, sul set. Dopo ventuno anni di carriera, ha imparato a riconoscere la genuinità delle intenzioni e l’onestà delle persone. Fuori, mentre parliamo, piove. E Bizzaglia mi confessa che è felice perché ama il rumore della pioggia e il suo odore.
Meglio l’inverno dell’estate?
«Sì, per me sì. Di solito, la gente mi prende per pazza quando lo dico. Ma a me piace il freddo, il buio e la pioggia. Quindi, ora che si sta avvicinando l’autunno, sono veramente felice».
In un’intervista a Vanity Fair hai detto, e ti cito più o meno parola per parola, «questo lavoro mi ha dato e tolto tutto». In che senso?
«Quella frase viene da un discorso più ampio; un discorso che mi ha portato alla terapia, dove sono andata negli ultimi cinque anni. E ho capito una cosa».
Dimmi.
«Spesso si attraversa un processo di adultizzazione che non coincide minimamente con quella che è la nostra reale età. Per forza di cose, diventa difficile per chi è ancora piccolo, per chi è a malapena adolescente, gestire sentimenti come l’ansia del lavoro, interfacciarsi con persone più grandi e superare le aspettative sociali. Questa pressione porta a una serie di rinunce importanti. Bisogna studiare e lavorare contemporaneamente. Io, per dire, non ho ricordi di viaggi di classe o di momenti con gli amici; se ci penso, mi viene in mente solo il set».
Quando hai fatto pace con il tuo lavoro?
«Nel momento in cui ho capito che non è il mio lavoro che mi definisce come persona. Non a caso le cose più belle hanno cominciato ad arrivare proprio quando ho smesso di essere ossessionata».
La prima volta che hai detto di voler fare l’attrice eri piccolissima ed eri rimasta incantata dal Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli.
«E pensa che i miei genitori non volevano. Molto spesso c’è questa convinzione, no? Che sono i genitori a voler trasformare i loro figli, a spingerli in avanti, per vivere qualcosa che loro non hanno mai vissuto. La mia famiglia ha sempre fatto tutt’altro. I miei a malapena vanno al cinema. E, come ti dicevo, non volevano. Erano preoccupati. Ma mi hanno sempre permesso di fare quello che volevo e mi hanno sempre supportata».
Quando hai detto ai tuoi genitori che volevi recitare?
«Più o meno a sei anni, quando ho chiesto di essere iscritta a un corso».
E loro come hanno reagito?
«Loro, prima di cedere, hanno provato a farmi fare qualunque altra cosa: sport, musica. Io però volevo fare solo quello. Il primo provino l’ho fatto a 9 anni, e da lì non mi sono mai fermata. Oramai sono passati ventuno anni».
Tu, però, quando hai capito che questo è un lavoro? Non solo, insomma, un desiderio.
«L’ho capito sul set di Un’altra vita. Poco prima della maturità, i miei coetanei stavano scegliendo cosa fare, dove andare, a quale università iscriversi. Io invece ho deciso di vivere fino in fondo la mia scelta e di fare l’attrice a tempo pieno. Ricordo che ero sull’Isola di Ponza, che ero lontana da casa e dai miei genitori da quasi sette mesi. Fino a quel momento, avevo fatto tutto sul set: avevo dato il mio primo bacio, mi ero presa la mia prima sbronza; tutti i momenti più importanti della mia adolescenza sono stati sul set. E per me, quasi paradossalmente, non esisteva il fallimento».
In che senso?
«Quando sei piccola, molti provini li vinci. E non c’è così tanta competizione. E non vivi i social come li vivi quando sei più grande».
Come mai hai deciso di non fare un’accademia?
«Perché lavoravo già. Tornassi indietro rifarei la stessa scelta».
Quando hai deciso di continuare su questa strada, è stato facile? Hai trovato immediatamente un equilibrio?
«Sono iniziati i problemi con l’ansia. Oramai ci convivo, è la mia miglior amica e la mia peggior nemica».
A 13 anni hai passato tre mesi, da sola, in Egitto. Che cosa ricordi?
«Quando ti parlo di adultizzazione precoce, intendo esattamente questo. Ricordo due momenti particolari, in cui ho sentito la mancanza di mia madre. Mi è venuto il mio primo ciclo mentre ero sul set di Sharm el-Sheikh, e anche il mio primo bacio l’ho dato su quel set, all’attore che faceva il mio fidanzatino nel film. E l’ho dovuto dare davanti a centoventi persone. Questi ricordi me li porto ancora dietro perché mi rendo conto che forse sarebbe stato più giusto viverli in un altro modo. Io amo la solitudine, forse un po’ troppo; e credo che in parte dipenda dalla mia esperienza, dal mio dover fare subito i conti con me stessa e con la gestione del mio lavoro. Non c’è sempre stato un adulto a cui ho potuto chiedere una mano nell’immediato».
Non ti piace stare in compagnia?
«A volte ho bisogno di ricaricare le batterie e confesso di essere piuttosto gelosa dei miei spazi».
Hai paura del cambiamento?
«Io cerco sempre di avere esperienze diverse, in qualunque ambito, proprio per poterle fare per la prima volta. È un modo che ho per riappropriarmi di quella spensieratezza tipica dell’adolescenza che non ho mai vissuto fino in fondo. Paradossalmente, poi, entro quasi in crisi quando una cosa già l’ho fatta e devo rifarla per una seconda volta: ho paura che sarà tremenda. Molte cose le ho viste da fuori, come le scene di un film».
Non c’è il rischio, poi, di idealizzare troppo?
«Quando ti dai determinati standard, l’illusione e la disillusione sono dietro l’angolo. Se non soffro non sono felice. È assurdo, lo so. Insieme al buono, cerco anche il cattivo. Perché senza l’uno non mi sembra possibile provare l’altro. Ancora però non ne sono così sicura».
La sofferenza e l’infelicità sono motori fondamentali per la creatività?
«Per me sì. Penso che derivi dal fatto che credo poco a quello che mi viene raccontato come perfetto e bellissimo. Molto spesso, nel mio lavoro, mi hanno detto che non potevo accedere a determinati provini perché il mio aspetto o la mia energia non corrispondevano con il dolore di un determinato personaggio. È stata una grandissima sofferenza perché in realtà, dentro, avevo un dolore enorme che non si vedeva. E la sofferenza, per questo, finisce per essere un motore. Come fai a raccontare il dolore se non l’hai mai provato? Se non sai come muoverti, se non sai come reagisce il tuo corpo?»
Quanto è importante per te essere indipendente?
«È fondamentale. Credo che le aspettative di cui ci fa carico la società abbiano un ruolo determinante in questo. Ultimamente cerco di ritagliarmi del tempo libero per pensare solo a me, per rilassarmi. Ma la mia indipendenza rimane centrale; viene prima di tutto. Negli spazi condivisi, ci sto molto stretta».
Quanta superficialità c’è nel mondo dello spettacolo? È difficile, ti chiedo, conoscere veramente le persone che fanno il tuo stesso lavoro?
«Molto difficile. E in questo c’è uno degli aspetti positivi dell’aver cominciato così presto: ci sono delle dinamiche che, oramai, conosco a memoria. E so subito se un rapporto è genuino o forzato, se una persona è sincera oppure sta interpretando un ruolo. Le mie migliori amiche sono le stesse che ho conosciuto alle medie».
Che cos’è che manca nel cinema oggi?
«Molte cose non vengono rappresentate. Quelli che hanno la nostra età, per esempio, sono quasi assenti. Quando vado ai provini, spesso mi viene chiesto di interpretare la figlia di, la sorella di o la fidanzata di. Eppure noi di problemi ne abbiamo, è assurdo che il cinema non riesca a raccontarli e a metterli a fuoco».
Mi dicevi che le tue migliori amiche sono quelle che hai conosciuto alle medie. È complicato relazionarsi con le tue coetanee che non hanno vissuto le tue stesse esperienze?
«A volte può esserlo, sì. Quando ero più piccola, mi ricordo discussioni assurde, tipo sul dove andare a prendere il caffè. E magari io avevo un appuntamento dal commercialista. Per carità, non dico che sia sbagliato avere quel tipo di problemi durante l’adolescenza».
Però?
«No, nessun però. Tenere i piedi per terra, per me, è importante. È quello che mi ha insegnato la mia famiglia. Io sono la più grande di tre figli, e diciamo che non mi era quasi concesso portare quella roba strana e assurda che è il mio lavoro. Io dentro casa ero Lulli: sorella, figlia, amica. Ed è grazie ai miei genitori se non c’è stato un momento di eccessi o di sbandamenti. Sono sempre stata educata. Forse troppo educata».
Che rapporto hai con i tuoi fratelli?
«Mia sorella più piccola è la mia vita; la tratto quasi come una figlia. Spesso mi ripete di farmi i cazzi miei, perché ha 22 anni, è grande. (ride, ndr) Studia veterinaria e non le interessa niente di quello che faccio. Quando provo a regalarle qualcosa, come una borsa, mi dice sempre di no. Mio fratello, che è più vicino a me come età, vuole fare il fotografo e viaggiare per il mondo. Mi sono sempre sentita responsabile per loro. Mia madre mi ha avuto molto giovane, a 25 anni».
Quando si capisce che i nostri genitori, in realtà, sono persone come noi? Persone che sbagliano, fragili, con le loro insicurezze.
«Quando cresciamo. Tre anni fa, ho comprato la mia prima casa e mi sono resa conto di quanto sia difficile far quadrare le cose. La terapia, in questo, mi ha aiutato tantissimo. Ed è vero: i genitori sono innanzitutto delle persone. Ed è una cosa che provo a ricordarmi sempre, con tutti quelli che incontro. Sono fiera di essere figlia dei miei genitori, e ho capito quanto sono stata fortunata e privilegiata. A casa mia abbiamo sempre potuto parlare di tutto».
Di che cosa hai paura?
«Della morte. È una cosa che mi blocca. Ho paura della morte dei miei genitori, di chi amo, e provo a godermeli fino in fondo ogni giorno».
Hai scritto due libri: Abbi cura di splendere, pubblicato da DeA Planeta, e Di pioggia e di fiori, pubblicato da Sperling & Kupfer. Che rapporto hai con la scrittura? È una cosa che fai spesso, che ti viene naturale?
«Scrivere è una zona di comfort. La scrittura è diventata un’amica; è una di quelle poche cose che restano unicamente mie. Non condivido tutto. La scrittura è una sorta di cassaforte. Non ho paura di dire niente quando scrivo».
Ci sono cose a cui tieni particolarmente, che hai scritto e che non vuoi condividere con gli altri?
«Ho scritto due lettere alle mie nonne, che per me sono donne incredibili. Se mi sono avvicinata alla recitazione, è stato anche grazie a loro. Mi hanno dato un amore gigantesco, ma in maniera diversa. Due anni fa, quando ho avuto un problema di salute piuttosto importante, mi sono fermata e ne ho approfittato per scrivere delle lettere, come queste due. Ma non so se le spedirò mai. Scrivere lettere è una cosa che mi fa stare bene».
Una volta, Gigi Proietti ti ha chiesto di ripetere insieme una scena.
«Che storia... Eravamo sul set di Una pallottola nel cuore; non ricordo se per la seconda o la terza stagione. Eravamo in pausa pranzo quando si è avvicinato e mi ha chiesto di ripetere le battute. Ma il modo in cui me l’ha chiesto è stato incredibile: per favore, scusami, so che la pausa è un momento sacro per gli attori. E poi sentirmelo dire da Proietti! Sono rimasta incantata, credimi. Io mi sono seduta per terra, vicino alla sua sedia, e abbiamo cominciato a ripetere. A un certo punto mi è squillato il cellulare e lui mi ha detto: ricordati che sul set il cellulare non si porta mai; si chiude in camerino la mattina e si recupera la sera. E da quel giorno ho sempre fatto così».
E dell’anno passato vivendo in albergo per girare Un posto al sole che cosa ricordi?
«Con Napoli ho un rapporto di amore e odio. Ho stretto dei legami bellissimi, ho conosciuto delle persone straordinarie. Ma l’ho odiata tanto perché è stato difficile trovare dello spazio per me, per rimanere da sola. All’Esedra, l’albergo dove dormivo, ho fatto amicizia con una delle signore che si occupavano delle pulizie. E a un certo punto mi sono resa conto che leggeva i copioni di Un posto al sole, e ogni tanto ne parlavamo. Prima di andarmene, le ho fatto trovare le sceneggiature stampate delle nuove puntate e gliele ho regalate. E ci siamo messe a piangere. È stato il nostro segreto».
Che tipo di responsabilità è quella di essere seguita da così tante persone sui social?
«I social sono un mezzo potentissimo; molto spesso vengono sottovalutati, anche dal punto di vista artistico. Penso che sia una moda dire: mi fanno schifo i social. Anche perché quelli che lo dicono sono gli stessi che ci passano ore intere ogni giorno. E non ha senso secondo me giudicare qualcuno per la sua presenza sui social. E poi i social possono essere un lavoro, un’opportunità, qualcosa con cui fare esperienza e, soprattutto, con cui poter pagare le tasse. È vero che, prima di dire una cosa, ci penso su almeno dieci volte. Quando ero più piccola, raccontavo tutto. A cominciare dalle mie relazioni. Oggi non lo rifarei. Ho visto quali sono le conseguenze. Quello che si legge sui social non coincide con la vita di una persona, con tutta la sua verità. E a volte, non te lo nascondo, ho quasi paura di non pubblicare e di sparire. È una sensazione che ti prende all’improvviso».
Cani o gatti?
«Cani. Tra me e la mia famiglia, in vent’anni, ne abbiamo adottati sedici. Olivia, che è qui con me, viene dal canile di Avellino; è una ragazza campana. L’avevano abbandonata in un fossato, di notte, con i suoi fratelli. Adottare per me è sempre la prima scelta. Ne avessi la possibilità, mi piacerebbe adottare altri venti cani. A casa dei miei genitori, però, c’è un gattino cieco che abbiamo trovato in Grecia. Si chiama Nicoletto».
Che tipo di sacrificio è quello di rinunciare alla propria solitudine per stare con gli altri?
«Secondo me ci sentiamo in dovere di essere perennemente raggiungibili. Su Instagram, via messaggi, al telefono. Il mio guilty pleasure, per dirti, è quando annullano un evento all’ultimo minuto e posso rimanere a casa, sul divano, sotto la coperta a vedere un film. Allo stesso tempo mi sento in colpa. Perché so che è importante uscire e conoscere altre persone. Sto cercando di trovare un equilibrio».
La tua casa è il tuo rifugio?
«Sì. L’ho comprata tre anni fa, come ti dicevo; è il posto dove ci sono tutti i miei risparmi, i miei sacrifici e le mie rinunce. Non ho chiesto una mano a nessuno. È solo mia, e la difenderò con le unghie e con i denti. Tra queste mura, un po’ come quando scrivo, sono me stessa. Nei miei momenti peggiori e nei miei momenti migliori. L’ho umanizzata, questa casa. Ci tengo veramente tanto».
Ritorniamo al discorso sull’indipendenza.
«Sì, direi di sì. Io ho una storia familiare un po’ particolare. Quello che chiamo papà è l’uomo che mi ha cresciuta da quando avevo due anni, e per me i figli sono di chi li cresce, non di chi li fa. Questa cosa mi ha fatto capire l’importanza di avere dei punti di riferimento solidi e di difendere i propri spazi dall’esterno».
Se dovessi identificare la tua casa con un’unica cosa, quale sarebbe?
«L’odore che ha. Un odore che sa proprio di casa, di tranquillità. Un odore che mi accoglie sempre quando ritorno da un viaggio e che mi coccola».
Gli odori sono legati alla nostra memoria.
«E mi aiutano tantissimo anche nel mio lavoro. Quando devo connettermi con la me stessa bambina, provo a ricordare l’odore della pasta e fagioli che mi faceva mia nonna. Quando devo interpretare un nuovo personaggio, scelgo un nuovo profumo. E provo a scegliere sempre profumi che non metterei mai. Amo tantissimo l’odore della pioggia e del freddo. Mi ricordano la tranquillità».
Sei nostalgica?
«Ti dico questo: la mia tesina della maturità si intitolava L’ossessione del ricordo e il terrore di dimenticare».
Che cosa hai paura di dimenticare?
«Le cose che mi hanno fatto stare bene. Cerco di stampare le fotografie più importanti proprio perché mi aiutano a cristallizzare momenti particolari. Ho paura di lasciare brutti ricordi di me. E poi prendo costantemente appunti per tenere traccia di quello che sento, che mi intriga e che mi colpisce. Ritorna il discorso delle prime volte, se vuoi».
Qual è il tuo primo ricordo?
«Coincide con il mio primo incubo. O almeno, ecco, con il primo che ricordo. Vedi? Mi porto la sofferenza dietro... Lo ebbi insieme a mio fratello quando eravamo piccoli e condividevamo la stessa stanza; sognammo entrambi che un intruso era entrato in casa nostra, e ci svegliammo spaventati. Quando avevo incubi del genere, per farmi calmare, mia madre mi dava sempre il biberon al finocchio. E ancora oggi, quando voglio calmarmi, anche se il sapore è terribile, bevo tisane al finocchio».
Qual è, invece, il ricordo a cui tieni di più?
«Ce ne sono tanti, ma quello a cui tengo di più è sicuramente il primo provino a cui sono stata presa. Mi ricordo di aver provato una felicità incredibile, che non so se riproverò mai».
Dove sta, oggi, la felicità?
«Sta nella consapevolezza di non poter essere sempre felici, di doversi godere le piccole cose e i piccoli momenti. Sta nel dare amore e nel riceverlo. E sta nella salute fisica».
Foto di Gioele Vettraino. Grafica di Manuel Bruno. Ufficio stampa: Lorella Di Carlo.