di Gianmaria Tammaro
L’esperienza di Mani nude, la preparazione per Familia. La cosa più bella dell’essere attori e i momenti, tanti e diversi, a volte minuscoli, che compongono la felicità. E poi la responsabilità della regia, la vera natura di Romeo, l’incontro con Daniele Luchetti ed Elio Germano, e una vita passata sul set. L’intervista.
Penso che ci siano pochi attori come Francesco Gheghi. E non mi riferisco solo ai suoi coetanei. Parlo in generale, di tutta la categoria. Gheghi, ho scoperto intervistandolo, ama visceralmente il suo mestiere, ha quasi paura di fermarsi, e non ha nessuna intenzione di nascondersi dietro un fraintendimento o una scusa. È dritto più che diretto. Come una freccia. Ed è schietto, sincero e brutale. Quando gli chiedo della morte, mi dice che gli sta sul cazzo come la Lazio. E anche se ride, anche se nella sua voce si avverte una vena dolcissima di ironia, è serio. Mi racconta di quando non è potuto andare al funerale di suo nonno durante le riprese di Mani nude e di quando, a 18 anni, ha dovuto fare i conti con la scomparsa di un suo amico.
In molti lo hanno scoperto con Familia di Francesco Costabile, ma Gheghi c’è sempre stato. Ha iniziato a lavorare a 14 anni. Dice che la felicità non è una condizione, ma un insieme di momenti. E che se il regista ha delle responsabilità, perché decide ogni cosa, l’attore è libero. La cosa che preferisce del suo mestiere è quando scopre di essere stato preso per un ruolo. Da lì in poi, mi spiega, è tutto in discesa. Quando gli chiedo che cosa pensa di Romeo, lui che lo ha interpretato a teatro nello spettacolo di Mario Martone, mi risponde: era uno che aveva capito che l’infelicità è un lusso. Signore e signori, Francesco Gheghi. Buona lettura.
Che esperienza è stata quella di Mani nude di Mauro Mancini?
«Un’esperienza tostissima. Io venivo da Romeo e Giulietta di Mario Martone: trentadue repliche al Piccolo. Ero convinto che già quella fosse un’esperienza estrema: sicuramente formativa, per carità, ma intensa. E pensavo che dopo sarebbe stato più semplice, diciamo così».
Invece?
«Invece, dopo, è arrivato Mani nude, che è stata di gran lunga l’esperienza più difficile della mia vita. Dal primo all’ultimo giorno di riprese. Considera che quando abbiamo finito ero in Calabria, dopo alcune settimane in Bulgaria; mi stavano organizzando il viaggio di rientro, e mi avevano proposto di aspettare l’indomani per fare con più calma. Io ho detto di no, volevo ripartire subito. Volevo andarmene».
Perché?
«Non ce la facevo più. E non per le persone con cui avevo lavorato o per l’esperienza del set di per sé. Ma perché Mani nude, per me, è stato veramente tosto. Dovevo allontanarmi. Ed è stato in quel momento che è arrivata Familia. Avevo scoperto la storia un anno prima e avevo letto il libro. E avevo conosciuto Francesco Costabile».
Che cosa ha fatto la differenza?
«Girarlo a Roma. Perché questo mi ha permesso di accedere ai provini».
Ma tu perché volevi fare un film del genere, soprattutto dopo Mani nude?
«Perché sapevo che era un film importante. E poi volevo farlo proprio per affrontare e mettere a fuoco quel dolore che avevo attraversato – come persona e come attore – durante la lavorazione di Mani nude. Ne avevo bisogno, ecco».
Che cosa ricordi dei primi giorni sul set di Familia?
«Che ero una specie di caterpillar. Mi sentivo pronto. Volevo fare questo film, e volevo farlo con una certa attenzione e in una certa maniera. E come me tutti gli altri attori: eravamo disposti ad aiutarci a vicenda».
Durante il provino di Familia so che hai avuto un incidente. È rimasta la cicatrice?
«Sì, certo che è rimasta, mi hanno messo dieci punti».
Che cos’è successo?
«Per riassumere al massimo: mi sono buttato contro una porta finestra».
È stata una pura casualità?
«Guarda, da ragazzino ero estremamente vivace. Mi arrampicavo ovunque. Facevo dei macelli. Non avevo paura di niente, nemmeno della morte».
E poi?
«Crescendo, sono diventato un po’ ipocondriaco. E questa cosa, secondo me, mi ha salvato. Quando ho fatto quel provino, sono tornato bambino. Credimi. E mi ero convinto di poter rimbalzare scontrandomi contro il vetro».
Ma non sei rimbalzato.
«No. Ho rischiato di tagliarmi la gola».
Hai fatto il provino subito dopo Mani nude o prima?
«Subito dopo, verso novembre. La casting, Anna Pennella, e Francesco Costabile sono stati due grandi perché mi hanno aspettato: avevano altre persone da valutare, e invece no, hanno deciso di darmi una possibilità; io ho fatto il provino per ultimo».
Hai avuto paura dopo l’incidente al provino?
«Ti posso dire la verità? Quando ho visto la pelle che si apriva e il sangue che usciva, non mi sono impressionato per niente. Ero abituato a Mani nude, a tutte quelle cicatrici, alla fisicità. Ero pronto. La botta si è fatta sentire dopo, quando l’adrenalina è andata via, la pressione è crollata e siamo andati al Pronto Soccorso».
Quando eri piccolo aiutavi i tuoi genitori in pizzeria?
«Sì, però intendiamoci: per me rimaneva sempre un gioco. Facevo i supplì, tagliavo le patate... Mi ricordo la prima pizza che ho venduto a una signora».
La sai fare ancora la pizza?
«Sì, sì».
Qual è la tua preferita?
«Ultimamente, proprio da mio padre, mi sono innamorato di questa Margherita con le olive greche e la cipolla».
Dopo che lo hai interpretato per così tanto tempo, che cosa hai capito di Romeo?
«Romeo è un altro pazzo. È un ragazzo che vuole scoprire la sua sessualità, banalmente. Vuole vivere un grande amore. Ed è un finto depresso».
Perché?
«Perché sta lì, a lamentarsi, dice di volere l’amore, e potrebbe viversela tranquillamente. Secondo me, Romeo è uno di quelli che sono contenti quando stanno male. Riconosce che essere tristi è un privilegio».
Essere tristi è un privilegio?
«Per me sì».
La tristezza alimenta la creatività?
«Sì. In questo periodo sto preparando il mio nuovo cortometraggio, che racconterà la vita di un pittore. E nell’incipit c’è una frase molto simile».
Che scuola è quella del teatro?
«Ogni sera è diversa. E per me è stato un po’ come Groundhog Day. Gli spettatori, soprattutto, sono diversi. A volte ridono per alcune battute, altre, invece, non ridono per niente».
Quanto è importante il pubblico?
«C’è come una crasi sul palcoscenico: è importante il pubblico, sì, ma è importante anche il momento che stai vivendo con i tuoi compagni e il tuo personaggio. Io cercavo sempre di portare gli spettatori dalla mia parte, su quello che avevo studiato e conoscevo. E non va sempre bene. Per Romeo, almeno, non è così facile».
Ho letto che quando eri piccolo ti piaceva far ridere gli altri.
«Sì».
Questa cosa è cambiata? Il tuo centro si è spostato, o rimane sempre coinvolgere chi ti ascolta e guarda?
«È nato tutto dalla voglia di fare qualcosa che mi veniva veramente facile. Quando ero piccolo dovevo impegnarmi poco per avere dei buoni risultati. E questa estrema facilità, alla fine, mi ha fatto pensare una cosa».
Dimmi.
«Che potevo recitare, che forse era quello in cui ero bravo».
Il talento che cos’è?
«Pigrizia. Quando riesci a fare una cosa con facilità e per questo continui a farla».
Crescendo è cambiato qualcosa?
«Alla facilità si è affiancata una passione profonda, sincera, che mi ha spinto a studiare e a impegnarmi. Da piccolo mi piaceva far ridere gli altri; poi ho fatto solo film drammatici. Ma la radice è la stessa. E non credo che il motore di ogni cosa sia semplicemente il desiderio di farlo per qualcun altro. Certo, sono contento quando parlo con le persone che hanno visto quello che ho fatto e lo hanno apprezzato. Ma soprattutto sono contento quando riesco a dare voce a chi non ce l’ha, a rappresentare situazioni in cui gli altri possono rivedersi».
La pigrizia è salvifica?
«Sì, ti direi di sì. Ma, rispetto all’ipocondria, è diversa. La pigrizia ti tiene costretto nella tua zona di comfort».
Anche il talento, inteso come capacità di saper fare qualcosa, rischia di essere una gabbia?
«Quando diventa una passione o un’ossessione, si evolve. E può diventare una catena».
Tu sei più ossessionato o appassionato?
«Tutte e due le cose, ti direi».
Qual è stata la cosa più importante che hai capito sul set di Io sono Tempesta?
«Ero piccolo. Avevo 14 anni. Quindi non riesco a ricordarmi se ho imparato qualcosa in senso profondo, più adulto. Ti dico, però, che Elio Germano e Daniele Luchetti mi hanno abituato tanto bene quanto male».
In che senso?
«Daniele era tranquillissimo, preciso e sereno. Poi sono andato su altri set, e ho trovato urla e bestemmie. (ride, ndr) Elio è un fuoriclasse. Un professionista vero. E sia lui che Luchetti mi hanno fatto innamorare molto di questo mestiere».
È raro avere il tempo che serve, il tempo giusto, per lavorare a un film?
«Se vogliamo essere romantici sì, è raro. Ma la verità è che nun ce stanno i sordi. (ride, ndr) E quindi non è possibile permettersi di ripetere una scena troppe volte o di studiare in modo approfondito, per settimane intere, un personaggio».
Qual è il tuo film preferito di Toy Story?
«Il terzo».
Perché?
«Io questa cosa la dicevo anche prima di Quentin Tarantino… (ride, ndr) Per me la trilogia di Toy Story è la trilogia più bella del cinema. Forse se la gioca con i film di Sergio Leone. È difficile trovare un primo capitolo bello, un secondo ancora più bello e un terzo stupendo».
Quindi per te non esistono gli altri film?
«No, per carità. I primi tre sono una rivoluzione. Se ripenso al terzo, anche adesso che stiamo parlando, mi viene da piangere».
L’hai rivisto ultimamente?
«Ultimamente no, ma l’ho rivisto. E ogni volta li rivedo tutti e tre. La prima volta che ho visto il terzo, ero al cinema. Ed è stato incredibile».
Che differenza c’è tra la responsabilità dell’attore e la responsabilità del regista?
«Ecco, questa è una cosa che ho imparato. L’attore non ha una responsabilità. Il film è del regista. E le scelte che si vengono prese, a cominciare dal casting, dipendono dal regista».
E quando ti sei ritrovato nei panni del regista per il tuo primo cortometraggio, La buona condotta, com’è andata?
«È stato bello. Pura adrenalina. Per citare il Berlinguer di Elio Germano: collaborare, non competere. È una cosa che mi piace, lavorare con gli altri. E poi sono stato fortunato. Mi sono affidato a persone che stimo e a cui riconosco un grande talento. Anche i miei attori sono stati perfetti. Io avrei voluto fare di più, credimi».
Tu vuoi fare il regista o l’attore? O tutte e due le cose, magari.
«So che sono due mestieri completamente diversi con dei punti, dei codici, in comune. Io faccio l’attore, ma il mio sogno è fare il regista».
Si decide di fare l'attore per non crescere, per non caricarsi di responsabilità?
«Forse sì. “To play”, si dice in inglese. La recitazione è un gioco, e se riesci a prendere la parte bella del gioco ti diverti. Ovviamente dipende dal progetto. Per Familia, per dirti, ho fatto un lavoro particolare, che difficilmente mi capiterà di rifare a breve».
A volte ci si prende troppo sul serio?
«Ci si confonde. Anche io, quando ero più piccolo, mi prendevo sul serio. Volevo costruire, mettere insieme, ragionare. Fare il biopic. Ma c’è tempo per queste cose, e ora lo so. C’è tempo per tutto. Il mestiere dell’attore è un mestiere che ti cresce addosso, come una seconda pelle. Quando sarò più grande, non potrò fare i ruoli che posso fare oggi. Devo vivere il momento. Non avere fretta. Quando faccio la spalla ai provini, mi accorgo che tutti parlano di oggetti, spunti, di cose da proporre. Ma la verità è un’altra; la verità è che siamo noi, in quanto attori, con la nostra voce e la nostra faccia, la migliore proposta che possiamo fare. Siamo tutti diversi, ed è questo quello che dobbiamo metterci in testa».
Quanto pensi di essere cresciuto, e non intendo solo fisicamente, in questi anni?
«Alcuni non se ne rendono conto, sai? Io ho sempre lavorato in maniera continuativa. Prima facevo almeno un film all’anno; dai 18 anni in poi, ho cominciato a farne due. Allo Shorts International FilmFest ho vinto il Premio Prospettiva. E io spero di poterlo vincere di nuovo quando avrò 50 anni. Non mi sento un “talento emergente”. Non devo emergere da nulla».
Però c’è sempre la caccia al nuovo fenomeno.
«Ma sì, certo, perché siamo un prodotto. Qualcosa da vendere, da etichettare. Io però ho fatto quattordici film. Quando ho vinto il premio a Venezia, ho ringraziato Debra Granik, la presidente di giuria di Orizzonti, e le ho detto che mi stava cambiando la vita. Sai cosa mi ha risposto? “La vita te la sei cambiata tu”».
Che rapporto hai con la morte? Prima mi hai detto che da piccolo non ne avevi paura. Oggi?
«Mi sta sul cazzo. Quando avevo 18 anni, ho perso un caro amico. Ed è stato in quel momento che ho realizzato che la morte è reale, succede, e non è mai lontana. Mentre giravamo Mani nude, è scomparso mio nonno, che è stato una delle persone più importanti della mia vita. E non sono potuto andare nemmeno al funerale, pensa. Quindi sì, la morte mi sta sul cazzo. Come la Lazio».
Ti spaventa l’idea di fermarti, di avere tempo libero?
«Un po’ sì. Perché per me il lavoro è vacanza. Mi piace stare sul set; mi piace tutto quello che circonda e che riguarda il mestiere dell’attore. C’è sempre una parte più brutta, come in ogni mestiere. Ma io non la soffro, non più di tanto. L’idea di stare fermo mi disturba, però ho trovato un piano B: quando ho del tempo libero, scrivo e penso alla prossima regia».
Qual è la parte più bella dell’essere attore?
«Quando ti prendono per un film».
Poi è tutta in discesa?
«Sì. (ride, ndr) Quando sei stato preso per un ruolo e hai tutto il lavoro davanti, il copione da leggere e studiare, il personaggio da conoscere, non vedi l’ora di cominciare».
E la promozione? Ti piace quella parte?
«Ecco, quella parte non mi fa impazzire. Il mio mestiere è recitare; mi piacerebbe potermi concentrare su quello».
Qual è l’ultimo film che hai visto?
«Paternal Leave».
Ti è piaciuto?
«Tantissimo».
Vorresti lavorare con Luca Marinelli?
«Assolutamente sì».
Luca Marinelli o Alessandro Borghi?
«Tutti e due. Sono due geni. Ho avuto la fortuna di conoscere Alessandro, ed è una persona stupenda. Ci sentiamo spesso. Ed è veramente il numero uno. Tutto quello che vedo di Marinelli mi fa impazzire. Non posso dire quello che penso al 100%, perché sarebbe eccessivo… Però lo amo, riassumiamo così».
Tu adesso sei felice?
«La felicità, secondo me, non è una condizione. La felicità è fatta di momenti. Pochi, anche piccoli. Li vivi nel corso della giornata. Quindi non sono felice in senso assoluto, continuamente».
Anche quello è un premio in prospettiva.
«Io spero di essere felice in futuro, più che essere felice in questo momento. Quando la felicità arriva, sai, non ce ne rendiamo nemmeno conto».
E che succede a quel punto?
«Succede che la felicità diventa altro, si trasforma. E noi non ci accontentiamo».
Grafica di Martina Grillanti. Foto di Roberta Krasnig.