di Gianmaria Tammaro
Gli anni del liceo, l’ansia e la paura di non essere abbastanza; l’ossessione per fare bene ed essere la più brava. La decisione di lasciare l’università e di iscriversi all’Accademia. La danza e l’importanza di sentirsi stanchi, completamente coinvolti. E poi i personaggi, che sono il punto d’accesso per ogni nuovo progetto, e la possibilità di poter cambiare in continuazione. Dove sta la bellezza e dove, invece, la felicità. L’intervista.
Mi dice Chiara Celotto che c’è una differenza tra “stare da soli” ed “essere soli”, e mi dice che questa differenza risiede nelle scelte che prendiamo, nei momenti che ci ritagliamo per noi stessi e nella nostra capacità di vivere il presente. Quando è a casa, spesso le capita di dipingere. Le piace disegnare i capelli; mi spiega che sono fondamentali per dare un certo carattere alla persona che ritrae. La bellezza, però, non si trova tra i capelli ma tra le pieghette che si raccolgono ai lati della bocca quando sorridiamo. Da adolescente, mentre frequentava il liceo, Chiara faceva fatica a non sentire la pressione e l’ansia di essere costantemente giudicata. Ha cominciato ad andare in terapia molto presto, per gli attacchi di panico che la colpivano.
Quando si è iscritta all’università, ha scelto Psicologia. Ma non ha mai dato nemmeno un esame. Dopo appena tre mesi, infatti, è entrata all’Accademia del Bellini di Napoli. Mi confessa che le manca danzare. In particolare, mi dice, le manca la sensazione che provava: un misto di pesantezza e leggerezza, di consistenza e vuoto. Non una stanchezza alienante ma liberatoria. Ora non balla più, non crede di esserne capace. La chiave di volta per ogni progetto a cui prende parte sono i personaggi, e si sente fortunata, ammette, a poter cambiare così spesso.
Di quale quartiere di Napoli sei?
«Sono nata in provincia, a Cercola. Dalla prima media, invece, mi sono trasferita ai Colli Aminei, dove c’era la casa di mia nonna. Però non mi sento dei Colli Aminei».
No?
«No, mi sento più del centro storico di Napoli, dove ho fatto il liceo e l’Accademia. Quando mi sono trasferita, infatti, mi sono trasferita al centro».
Quindi ora vivi a Napoli?
«In realtà, ho appena venduto casa. (ride, ndr) Ora sono a Castiglione dei Pepoli, in Emilia Romagna, per le riprese di una nuova serie con Claudio Bisio. Ho trovato casa a Roma, però ci vorrà un po’ di tempo prima di potermi trasferire».
Nel frattempo dove vivrai?
«A casa dei miei genitori, di nuovo. Ed è una cosa stranissima. Spero di rimanerci per poco tempo. (ride, ndr)»
Quando te ne sei andata di casa?
«Intorno ai 21 anni, durante la pandemia. Ho trascorso quel periodo a Roma, a casa del mio ex compagno. Poi sono tornata a Napoli, e nel giro di pochissimo ho trovato il mio appartamento. Quindi tra i 22 e i 23 sono andata via, sì».
Che cosa ricordi degli anni del liceo?
«Guarda, per me sono stati veramente un incubo. Purtroppo, ci tengo a precisarlo. Avrei voluto viverli con più leggerezza. Sono stati gli anni in cui ho cominciato a fare terapia; avevo attacchi di panico perché volevo essere la più brava. Forse è qualcosa che veniva dalla danza. Vivevo il liceo come se fosse stato una responsabilità. Sentivo lo stress della danza, tutti i giorni e tutti i pomeriggi, e poi quando tornavo a casa dovevo studiare. La mia famiglia non c’entrava niente. Intorno al quarto anno ho iniziato ad avere delle idee contrastanti».
Cioè?
«“Non voglio deludere nessuno, ma perché degli sconosciuti mi devono giudicare?” Mi sentivo estremamente adulta per il liceo».
Quanto ha influito questa situazione sulla tua decisione di iscriverti a Psicologia?
«Abbastanza. Uscita dal liceo, mi sono ritrovata circondata da compagni che avevano le idee chiare su cosa fare. Io, nel frattempo, continuavo a ballare. Ho scelto Psicologia perché era la cosa che mi interessava di più. Pensavo di poter unire psicologia e danza e di fare danzaterapia, a un certo punto».
Però?
«Però non mi sentivo felice di questo futuro scelto così, al volo. Per i test non avevo nemmeno studiato tanto; non so nemmeno dirti io come ho fatto a superarli. Dopo appena tre mesi, senza aver dato nemmeno un esame, sono entrata in Accademia e ho cambiato completamente la mia vita».
È vero che all’inizio i tuoi genitori ti volevano chiamare Giorgia?
«Sì».
Poi cos’è successo?
«I miei nonni paterni hanno detto che era un nome maschile. Non so perché».
Meglio Chiara o Giorgia?
«Decisamente meglio Chiara, sono contenta che alla fine abbiano scelto così. Diciamo che Giorgia, in questo momento, non mi piace granché».
E Chiara?
«Chiara è il modo in cui tutti mi chiamano; è diventata un’abitudine».
Dipingi ancora?
«Sì, è una cosa che mi rilassa. Non devo seguire nessuna regola. Quando dipingo, sono libera. E non esistono disegni più o meno giusti, più o meno corretti: c’è unicamente quello che voglio fare. Quando ho iniziato, facevo questi quadri piccoli. Ora compro delle tele enormi. E ci passo tantissimo tempo».
Più o meno?
«A volte anche otto ore, senza mai staccare. Mi capita di dimenticare di mangiare».
E che cosa disegni?
«Donne. Ultimamente mi sono ispirata a un pittore che mi piace molto, Malcolm Liepke. Ho imparato piano piano nuove tecniche. Non ho nessuna fretta, e questa cosa mi piace».
Questi quadri li tieni per te stessa o li mostri ad altri?
«Non è che li mostro, no. Però non mi dispiace farli vedere. Anzi, pensa: ne ho fatti alcuni anche per le mie amiche».
Qual è il tuo colore preferito?
«Da piccola era il giallo. E volevo tutto di giallo: il ciuccio, le macchine, i giocattoli».
E ora?
«Ora il rosso. Mi piace moltissimo quando lo stendo. Mi dà una sensazione di compattezza».
Convivere con il giudizio degli altri, facendo l’attrice, che tipo di sfida è?
«Una sfida completamente differente rispetto al liceo. Lì mi sentivo in uno spazio non mio. Con la recitazione è diverso, perché parte tutto da una mia decisione. Non voglio suonare presuntuosa, però mi sentivo veramente troppo adulta al liceo. C’erano insegnanti pronti a giudicarti. E questa cosa non mi piaceva, mi soffocava. La scuola mi sembrava piccola».
Invece con la recitazione?
«Il peso del giudizio lo sento, però lo gestisco meglio. O almeno, ecco: faccio meno fatica nel gestirlo. Certo, pure in questo lavoro ci sono delle giornate positive e giornate negative. È un altro tipo di giudizio. Non un giudizio personale, anche se può sembrare personale, ma professionale. E poi, se posso essere onesta, non mi interessa quando vengo giudicata da chi non conosco».
Quando si capisce di essere diventati adulti?
«Non lo so. Ora mi sento adulta, ma non so dirti se è per quello che faccio o per quella che sono. A volte, mi sento ancora molto giovane. Forse mi sento adulta perché ho le mie responsabilità, perché rispondo a quello che ci viene ripetuto fin da piccoli: ho una mia casa, vivo da sola; mi pago quello che mi serve. Oppure mi sento adulta perché so gestire tutto ciò che mi succede da sola. Ma non so dirti quanto questo sia espressione di maturità. Non è detto che da adulti si riesca a fare i conti con la propria emotività».
Che rapporto hai con la solitudine?
«Mi piace stare da sola. Quello che faccio è un lavoro in cui si passa molto tempo con molte persone, e quindi quando sono da sola sto bene. A volte, forse, è pesante perché ti senti distante dagli altri, in particolare da persone che ti piacerebbe vedere. Ultimamente, per fortuna, non mi sento mai sola. C’è stato un periodo in cui è successo. Ora no».
C’è una differenza tra “stare da soli” ed “essere soli”?
«Scegli di stare da sola. Invece quando sei sola ti succede, ti capita, e ci puoi fare relativamente poco. Però, per fortuna, non è una cosa che soffro molto. Anche quando stavo a Napoli, nella mia casa, e i miei amici erano fuori, stavano lavorando, e io avevo voglia di uscire e non potevo, mi mettevo a dipingere o guardavo un film. E il silenzio mi piaceva».
Come si riconoscono le storie giuste, quelle per cui vale la pena di impegnarsi?
«Per me parte tutto dal personaggio. Se non stimo il personaggio, e mi è capitato, diventa decisamente faticoso. Perché non gira. Non gira per niente. Ho avuto la fortuna, nella maggior parte dei progetti, di sentire un grande amore e una grande simpatia per i miei ruoli. E sono questo amore e questa simpatia a portarmi dentro le storie. Ho avuto anche un’altra fortuna».
Quale?
«Quella di poter raccontare storie sempre diverse».
Ci sono ruoli che si accettano per lavorare? Perché servono?
«Certo, assolutamente. Mi è capitato, non te lo nascondo».
Ed è difficile convivere con queste scelte?
«Molto. Sia perché devi passare mesi interi in una parte che non ti parla sia perché, poi, questi ruoli tendono a rappresentarti. Ma tu non puoi sempre scegliere. E anche se un personaggio non ti definisce, all’esterno, al pubblico, può arrivare altro. Però ti dico: non ho mai guardato con assoluta sofferenza un progetto che ho fatto».
Ti manca la danza?
«Sì. Sono sette anni che non danzo, e mi manca veramente tanto».
Qual è il momento della danza che ti manca di più?
«Quello delle prove, mentre sei con gli altri. E poi il movimento di per sé, le coreografie. Quando sei nell’attimo e fai tutto giusto, ti senti bene. Mi manca il palco, e mi manca quella sensazione profonda, intensa, di fatica».
Come descriveresti questa sensazione di fatica?
«Ti senti pesante e svuotata alla stesso tempo. Pesante perché i muscoli sono contratti, stanchi, portati al limite. Svuotata, invece, perché ti senti leggera. Quando balli, senti queste due cose, vuoto e pesantezza, insieme. In ogni istante. Ed è incredibile».
Sui set si prova questa fatica? O viene costantemente interrotta?
«Sui set ci sono altri tempi. In teatro, invece, si prova di più».
È frustrante quando c’è un’interruzione?
«Sì, molto».
E ti capita di arrabbiarti?
«Diciamo. Ma non me la prendo con nessuno. Su un set non ci sei solo tu per fortuna, ci sono tante cose da tenere d’occhio. E quindi va così, a volte».
Se chiudi gli occhi e ti concentri, qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«Facevo un gioco con mio madre; lo chiamavano il gioco delle poltrone. Mia madre, con il corpo e con le gambe, faceva delle poltrone. E io dovevo provarle. Ero la cliente di questo negozio immaginario. Mi ricordo il divertimento e le risate».
Quanti anni avevi più o meno?
«Tre, credo».
Che differenza c’è tra paura e panico?
«Il panico non riesci proprio a razionalizzarlo. La paura, invece, è quasi sempre seguita da un “perché”. Il panico no. Non sei in grado di individuare la fonte, nel momento in cui arriva. Pensi che sia una cosa, ti convinci di aver capito, e non è così. E questo ti porta a sensazioni fisiche intensissime. Ora mi capita veramente di rado di avere un attacco di panico. E li riesco a controllare di più».
La paura serve?
«La paura ti fa allontanare da ciò che ti fa male e non ti fa stare bene».
Credi di aver raggiunto un equilibrio nella tua vita?
«A volte credo di esserci riuscita, sì. Altre volte no, e finisco quasi per auto sabotarmi. Io non ho pazienza, sai? È abbastanza paradossale visto il lavoro che faccio. Nella vita, voglio sapere tutto e subito; lo so che è sbagliato, lo so che è impossibile, però voglio provare ad avere il controllo. Non riesco a concentrarmi su altre cose».
Diventa un ossessione?
«Un po’ sì».
Che cos’è il talento?
«Il talento è una capacità che hai. Ce lo dicevano anche a danza. E il talento va coltivato, seguito. Se cresci e non lo coltivi, rischi di perderlo... Però sai, pensando a questo aspetto, capisco di non sapere davvero che cosa sia il talento».
Ti capita ancora di ballare?
«No».
Perché?
«Perché non mi sento più a mio agio. Non come prima, almeno. Mi sono allenata per sedici anni e poi, di colpo, mi sono fermata. Ho fatto fatica ad accettare il mio nuovo corpo, quando sono cresciuta e sono diventata una donna. Mi sono vista diversa, più goffa, meno elastica. Mi dava fastidio non sentirmi più capace».
Sei figlia unica?
«Sì».
L’essere figlia unica ha condizionato la tua decisione di fare l’attrice?
«Penso di sì. Ho avuto un rapporto molto turbolento con la mia famiglia. Per un periodo, credo di non essere riuscita a farmi capire. E quindi litigavamo. Mi sentivo quasi come l’unico genitore. (ride, ndr) E a un certo punto ho capito di voler essere di nuovo figlia. Però qui c’è un’altra contraddizione. Ho scelto un lavoro in cui, alla fine, ricevi molte attenzioni. Ed è esattamente quello che faticavo ad accettare nella mia famiglia».
I tuoi genitori che cosa hanno pensato della tua decisione di fare l’attrice?
«Nonostante le loro ansie per il mio futuro, perché non era così sicuro trovare un lavoro dopo l’Accademia, sono sempre stati dalla mia parte. E mi sento fortunata. La cosa che mi ripetono sempre è: noi siamo felici se tu sei felice. Ecco, sembra banale, ma a volte è davvero tutto quello che serve. Hanno sempre creduto in me. Non mi hanno mai suggerito di trovare un piano B».
Dove sta la felicità, secondo te?
«Sta nel presente. C’è sempre qualcosa che manca, qualcosa che vogliamo o di cui sentiamo il bisogno. E quindi è importante saper vivere il momento, non guardare troppo in là. Ora come ora, sono felice per ciò che ho; mi sono fatta un caffè e sto parlando con te di me stessa».
Quando dipingi, mi dicevi, dipingi donne. C’è qualcosa in particolare che ti intriga?
«Mi piacciono molto i capelli. È difficile trovare il giusto movimento mentre si disegnano. I capelli sono fondamentali quando provi a dare un certo piglio alla persona che ritrai. E a volte, non te lo nascondo, esagero anche».
La bellezza sta nei capelli?
«No, non credo. La bellezza per me sta in quelle pieghette che si fanno ai lati della bocca quando sorridi».
La foto di copertina è stata scattata da Gioele Vettraino.