di Gianmaria Tammaro
Il lento innamoramento con il fumetto, il rapporto con sua sorella maggiore, la decisione di scrivere Tutto sotto controllo, il suo nuovo libro edito da Rizzoli Lizard. E poi il ruolo delle immagini, l’importanza dello stile, la visceralità del disegno, la necessità di cambiare, l’infanzia a Taglia di Po e la voglia continua di poter sperimentare. L’intervista.
In Tutto sotto controllo, il suo nuovo fumetto pubblicato da Rizzoli Lizard, Eliana Albertini racconta la storia di Nora, una grafica che all’improvviso deve imparare a fare i conti con una realtà differente. Non ci sono colpi di scena disarmanti o sensazionali: è la vita che va, che cambia, che si trasforma e che non è mai uguale a sé stessa. E quindi è impossibile tenere sotto controllo le cose, proprio com’è impossibile tenere sotto controllo le persone.
Con il fumetto, mi racconta Eliana, non c’è stato nessun colpo di fulmine: è arrivato con i suoi tempi. Grazie, soprattutto, a sua sorella più grande che ha frequentato il liceo artistico e che le ha, diciamo così, aperto la strada. Più che con le parole, Eliana sente di saper comunicare con le immagini. Per questo, mi dice, non riuscirebbe mai a fare a meno del disegno. Le sue storie sono un modo per affrontare determinati eventi, per vederli da un’altra prospettiva e metterli, in un certo senso, da parte. Con Tutto sotto controllo, ha parlato di ciò che le stava più a cuore. E, ammette, è stato terapeutico.
Quanto c’è di autobiografico in questo fumetto?
«C’è qualcosa di autobiografico in tutti i fumetti che ho fatto. Forse, negli altri era più velato, mentre in questo emerge in modo più chiaro. Diciamo che volevo fare un libro con la massima tranquillità, e questo ha significato dire tutto, senza nascondermi. Di base, però, non mi interessa scrivere autobiografie. Per me, Tutto sotto controllo rimane una storia di finzione, che ho creato io».
Credi che nel fumetto italiano ci siano troppe storie intimiste?
«Ti parlo onestamente: io sono felice di aver fatto questo fumetto; avevo bisogno di scrivere e raccontare determinate cose, e ho approfittato dell’occasione che mi sono costruita: quella, cioè, di tirare fuori argomenti che mi interessano, che possono essere più o meno autobiografici e intimisti. Lavorare a Tutto sotto controllo è stato terapeutico. Ma è una cosa che chiunque può fare: basta tenere un diario. Al tempo stesso, come lettrice non cerco quasi mai l’autobiografia di un autore. Non mi interessa. Non posso però nasconderti che anche io, a modo mio, ho contribuito a questo filone. Però provo a vederlo sotto una luce positiva».
In che senso?
«Magari, proprio grazie a questa storia, un giorno mi convincerò a cambiare e farò un fumetto totalmente diverso. Che ne so, un fumetto fantascientifico. Però dovevo arrivare a questo punto; mi serviva tirare fuori determinati temi per poter voltare pagina».
Quindi il fumetto ha sempre una funzione terapeutica per te?
«Per me sì. Malibu, per esempio, mi ha permesso di fare pace con il posto dove sono cresciuta. E lo stesso hanno fatto altri fumetti. Mi hanno aiutato a sistemare cose che, magari, non sapevo nemmeno di dover sistemare. Nel caso di Tutto sotto controllo, invece, è stato un processo più consapevole. Mi serviva qualcosa per stare meglio, e ho usato il fumetto».
Come mai, a un certo punto di Tutto sotto controllo, ci sono delle fotografie?
«È una cosa che è successa in modo del tutto naturale, credimi. Quando sono arrivata a quel punto della storia, mi è capitato di avere un rullino sviluppato, con foto tutte sbagliate. (ride, ndr) Ho provato ad assecondare le idee che mi venivano. E poi volevo sperimentare. Mi piace unire tecniche differenti, l’avevo già fatto in Anche le cose hanno bisogno. Con questo libro non ho improvvisato, perché una traccia di fondo c’era, ma avevo una libertà diversa. E così ho deciso sul momento di inserire delle foto».
Quanto è importante l’istinto in un fumetto?
«Molto. Io vivo abbastanza la responsabilità di star creando qualcosa che poi rimarrà, anche solo fisicamente, e che avrà la possibilità di lasciare una traccia. Se penso troppo a questo aspetto, mi passa la voglia di andare avanti. Perché subentra il senso di inadeguatezza. Quindi, per questo libro, che è decisamente più personale degli altri, ho provato a metterci il meno tempo possibile. Sarebbe stato troppo facile lasciar perdere e non farlo».
Si cambia quando si finisce una storia?
«Penso che sia un’esperienza diversa per tutti; dipende dalla singola persona. Con altri fumetti, forse, non sono cambiata. Con questo sì. Ma perché, come ti dicevo, ho potuto mettere in una scatola tante cose che pensavo mi appartenessero. Fare un fumetto mi serve anche a questo: a capire cosa tenere».
Come vivi il giudizio degli altri?
«Per me tutti i giudizi valgono. Ovviamente, ci sono anche le critiche. E prima dell’uscita di un fumetto, mi spaventano le risposte dei lettori. Quando ci sono dentro, invece, quando un fumetto è già uscito, sono sempre curiosa di sapere che cosa ne pensano gli altri. Proprio perché, spesso, il punto di vista di un autore è differente rispetto a quello di un lettore».
Da dove inizi quando devi disegnare?
«Anche questo dipende. In questo caso, ho iniziato dalla prima tavola. Più vado avanti, però, e meno mi preparo. Prima ci facevo più attenzione: a come fare una casa, un personaggio o un albero. E invece ora il disegno parte dalla mia testa; devo solo metterlo giù, su carta. E quindi quasi non c’è un pensiero».
Quanto credi di essere cambiata rispetto alla tua infanzia ad Adria?
«In realtà, sono solo nata ad Adria. Sono cresciuta a Taglia di Po. E onestamente non penso di essere cambiata molto. (ride, ndr) Mi ricordo tantissime cose, e per fortuna ho avuto un’infanzia felice grazie alla mia famiglia. Ed è stato questo, secondo me, a permettermi di conservare una parte integra della me bambina, che esiste ancora e che non è confinata alla memoria: è presente. E il merito, appunto, è della mia famiglia. Quindi non è che, guardando le foto, non mi riconosco. Anzi, abbastanza spesso non trovo differenze».
Dove e come nasce lo stile?
«Non credo che ci sia una genesi facile da rintracciare. Lo stile è una cosa che cresce insieme a te. È come un bambino che diventa adulto, e quell’adulto in qualche modo rimane bambino. Se ne hai la possibilità, se ne hai l’occasione, se ti trovi nel posto giusto, lo stile si può sviluppare».
Altrimenti?
«Altrimenti rimane fermo, identico. Per questo gli stili sono tutti diversi. Io ho avuto la possibilità di studiarlo e di portarlo avanti».
Nei tuoi lavori, mi pare che un ruolo fondamentale lo giochi l’ironia. Magari non in modo dichiarato, ma c’è sempre. Quanto è importante non prendersi sul serio?
«Se c’è una cosa veramente autobiografica in Tutto sotto controllo, è proprio questa. Anche nella vita di ogni giorno provo a non prendermi troppo sul serio, a scherzare su tutto. Non so dirti quanto sia consapevole e quanto, invece, dipenda da me. Però è importante. E vedendo chi si prende sul serio, capisco che non mi piace, che non voglio essere così. Non mi piace nemmeno l’autocommiserazione: quella viscerale, profondissima, non credo che abbia senso. Anzi, forse è solo un’altra faccia del prendersi troppo sul serio. Io cerco una via di mezzo, qualcosa per stare con gli altri».
Tu credi di avere tutto sotto controllo?
«No, assolutamente no. (ride, ndr) È una cosa che ho provato a fare nella vita, e non lo nego. Però ogni volta è successo qualcosa per cui si è ribaltato tutto. Se prima la vivevo male questa mancanza di controllo, ora no; ora provo a vivere l’attimo e a vedere il lato positivo».
Qual è il lato positivo?
«Che ci sono mille possibilità. Mai una soltanto».
Ti ricordi il momento preciso in cui hai deciso di fare l’illustratrice e la fumettista?
«È stato graduale. Non ho mai avuto grosse intuizioni o rivelazioni. Ho sempre disegnato. E ha sempre disegnato pure mia sorella, che ha dieci anni più di me. Era lei che voleva fare la fumettista. Poi, però, ha fatto la grafica. Io, come un pesce che si fa trascinare dalla corrente, ho frequentato prima il liceo artistico e poi il corso di illustrazione in Accademia. E mi è sembrato bello».
Perché?
«Perché mi ha fatto tornare in mente un momento che avevo vissuto da piccola, alle medie. Leggendo un libro, mi ero detta: questo mi piacerebbe disegnarlo. Ecco, io all’inizio volevo fare solo l’illustratrice. Poi, quando ho cominciato a leggere altri fumetti, mi sono sembrati difficili da fare. E per questo ho deciso di provarci. Non c’è stata nessuna vocazione, insomma. Si è formata pian piano, questa voglia. E anziché lasciarla andare, mi sono incaponita: il fumetto mi sembrava il modo migliore per raccontare le mie storie».
Che rapporto hai con tua sorella?
«Molto bello. Ci sono stati dei periodi della nostra vita in cui i dieci anni di differenza si sono fatti sentire di più. Ma più avanti ci siamo ritrovate. A volte abbiamo delle idee diverse e ci scontriamo su alcune cose. Ma di base andiamo d’accordo. E poi è stata fondamentale nel mio lavoro: l’ho vista andare al liceo artistico, svegliarsi alle cinque del mattino per fare tutta quella strada, e ci sono andata anche io. E a volte, sai, me lo chiedo: se non ci fosse stata lei, avrei fatto lo stesso percorso?»
Chi è la prima persona a cui fai leggere le tue storie?
«Sicuramente la mia famiglia e i miei amici. Non c’è un’unica persona di riferimento, ecco, per i fumetti. Dipende molto da chi sento più vicino in un determinato momento e dal tipo di storia. Tendenzialmente, però, faccio leggere molto poco. Perché sono una fifona e perché sono molto pigra: se mi dicono qualcosa, se mi danno un suggerimento, non ho voglia di cambiare niente».
Con Tutto sotto controllo, vista la sua natura quasi autobiografica, è stato più difficile farlo leggere a qualcun altro?
«No, anzi. L’ho fatto leggere a diverse persone prima ancora di finirlo. Ed è stato un modo per ricevere una spinta. Nel profondo, volevo solo che mi dicessero che andava bene, di continuare».
Che solitudine è la solitudine del disegno?
«Per me è piacevole. Anche perché non mi chiudo mai completamente in casa. Ho bisogno di uscire, di stare con gli altri. Quando però sono alla scrivania, mi sento al sicuro. Sapere che avrò un sacco di tempo per lavorare da sola mi fa stare bene. E a volte, pensa, mi è capitato di andare avanti per quindici ore senza fermarmi».
Come si riconosce una storia che vale la pena di raccontare?
«Dopo aver proposto questa storia a Pasquale La Forgia, che è il mio editor e che è stato uno dei primi ad aver letto Tutto sotto controllo, ho aspettato un po’ prima di iniziare a lavorarci. Volevo pensarci. Serve sempre un momento per capire».
Cosa?
«Se la storia rimane, se ha un senso. E in questo caso è rimasta e aveva un senso. Con il tempo, è cambiata un po’. Ed è normale. Però ammetto che non mi vengono in mente così tante storie. E questo mi limita molto nelle scelte».
Ci sono storie che hai preferito tenere per te stessa?
«Sì, ma non le ho disegnate. Perché sono abbastanza pigra. (ride, ndr) Però mi è successo di scrivere delle storie, soprattutto dopo Malibu, che non ho pubblicato. E questo perché non volevo ripetermi, tornare nello stesso luogo».
Cosa viene prima, il disegno o le parole?
«Per me le parole, che non sono mai molto ordinate. Di base parto sempre da lì. Le immagini ci sono già. E arrivano quasi insieme alle parole. Non riesco a tenerle separate. La differenza sta nel fatto che le immagini vanno disegnate e per un po’ vivono unicamente nella mia testa. Disegno quando è necessario: per far capire alle persone che cosa voglio fare, e poi sì, per il fumetto».
A chi appartengono le storie una volta che vengono pubblicate?
«Io spero che rimangano ai lettori e che almeno una persona riesca a rivedersi in qualcosa che ho scritto o disegnato, che in una frase o in un’immagine abbia ritrovato casa. E se succede, quella storia è sua. Io me ne libero molto volentieri».
Per te che cos’è casa?
«È dove... non lo so… Sicuramente non sono solo quattro mura. Se penso a Tutto sotto controllo, c’è una scena che cattura l’essenza di quello che, per me, può essere casa: stare in un parco, da sola, senza nessun altro intorno, avvolta in un silenzio particolare. Ecco, quando mi è successo, mi trovavo in un luogo di passaggio. Eppure anche lì, in quell’istante, mi sono sentita a casa. Tendiamo a credere che la casa sia un posto che ci circonda, ma forse, invece, è un posto che nasce dentro di noi».
Che cosa hanno le balere che ti piace tanto?
«Sai che forse una parte di me, in quei posti, con quella musica da liscio, si sente a casa? (ride, ndr) Quando vado in certi luoghi, mi sembra di sognare. È un po’ una sbronza, e mi piace».
Che cosa significa per te disegnare?
«Per me è come parlare, è un modo per esprimermi. A volte, quando sento degli amici su Whatsapp, mi capita di rispondere con delle immagini. Che non sono dei veri e propri disegni, va bene. Però mi rendo conto che so comunicare meglio così, con le immagini, anche se non sono mie. La comunicazione verbale è una cosa che ho imparato più volte nel corso del tempo, e spesso la vivo come una forzatura. Il disegno, invece, è viscerale. Mi pare che sia dentro di me da sempre. Al di là, poi, delle scuole che ho frequentato. Non ho dovuto impararlo, il disegno».
Riusciresti a farne a meno?
«No, non credo. Per me è impossibile. A volte sai che ci penso? Anche nell’ottica di dover cambiare lavoro».
E che cosa ti rispondi?
«Che non smetterò mai, per nessun motivo, di disegnare».
La foto di copertina è stata scattata da Noemi Vola.