di Gianmaria Tammaro
L’infanzia a Orvieto, il rapporto con i genitori; la voglia di recitare e di trasferirsi a Roma subito dopo il liceo. E poi le prime esperienze, il giudizio degli altri e il desiderio di perfezionismo. Il personaggio di Mary e il set di Malamore. Essere una buona amica e ritrovare il tempo per respirare. L’intervista.
Dice Giulia Schiavo che respirare serve per non perdersi: quando respiriamo, ritroviamo noi stessi, il nostro centro, e impariamo a rallentare. Fare l’attrice per lei significa poter vivere storie diverse ed essere il tramite per un personaggio; allo stesso tempo è un modo per confrontarsi con gli altri. Perché quando reciti, mi spiega Giulia, devi creare una distanza tra ciò che sei nella vita di ogni giorno e ciò che devi diventare. Per questo Malamore, il film di Francesca Schirru al cinema con 01 Distribution, rappresenta uno spartiacque per lei. C’è un prima e c’è un dopo: c’è una Giulia che non riesce a non giudicarsi e ce n’è un’altra che è soddisfatta perché riguardandosi riconosce una persona differente, altra, rispetto a lei.
Malamore ha lasciato delle tracce su Giulia: spesso si risvegliava pensando e muovendosi come Mary, il suo personaggio. Le ci è voluto del tempo per tornare a respirare. E il tempo, mi racconta, è ciò che consola gli attori. Il tempo e la consapevolezza. Giulia ha un rapporto profondo con la memoria e con gli oggetti che custodiscono i ricordi, e si è creata una sua famiglia di amici di cui non riesce a fare a meno. L’amicizia, per lei, è una cosa che va oltre: che non si ferma ai “come va?”, ma che indaga seriamente la felicità e la sofferenza dell’altro.
In questo momento, mi dicevi, sei in preparazione per una nuova serie e per un nuovo spettacolo. E in sala, da poco, è arrivato Malamore. È difficile tenere insieme tutte queste anime, tra teatro, cinema e tv?
«Non è difficile: è difficilissimo. E la trovo anche una situazione abbastanza inusuale, perché sono tante cose che, all’improvviso, si stanno allineando. Dentro di me sento come una pace. Sono emozionata, non lo nego, però per adesso mi sembra una sensazione gestibile. Forse, questa è la prima volta che vivo l’ansia dei progetti che arrivano mantenendo una certa distanza. Sono serena, ecco».
Che forma prende, per te, un’emozione simile?
«Io somatizzo tantissimo, e a volte – credimi – sono travolta dai brividi. Dalla testa ai piedi».
È più eccitazione o è più paura?
«Secondo me, l’eccitazione ha a che fare con la paura. Quello che provo è un mix delle due cose, alla fine. Ci sono tanti pensieri e tanti dubbi nello stesso tempo. Io sono una perfezionista e difficilmente mi accontento. Anche se so di aver dato il massimo, quando mi riguardo ho sempre qualcosa da criticarmi. Quindi sì, c’è una dose costante di paura. Paura per le aspettative che mi autoimpongo».
Come si capisce, allora, di essere soddisfatti?
«Sai che non lo so? (ride, ndr) Forse non ci sono dei momenti di totale soddisfazione. Anche quando credo di essere andata oltre, per me è difficile accontentarmi. A volte succede, e ti faccio un esempio».
Dimmi.
«Quando abbiamo visto tutti insieme Malamore, mi è successo per la prima volta di estraniarmi completamente dal mio personaggio. E in quel momento ho sentito un’enorme soddisfazione. Ho sospeso ogni giudizio. E ho visto muoversi e respirare un’anima che non era la mia. E in quello stesso momento, vedendomi soltanto come un tramite, mi sono sentita in pace».
Per te, hai detto, esistono un prima e un dopo Malamore.
«Sì, e questo perché Malamore mi ha permesso di immergermi in luoghi che non conoscevo e di raggiungere una profondità nuova della mia essenza. Per citare Piera Degli Esposti: il mestiere dell'attore è quello di consolare. E quindi ci capita di calarci nel buio più profondo solo per poi tornare alla luce».
È stata una sfida?
«Dopo le riprese, ho avuto dei postumi. Mi svegliavo la mattina e continuavo a sentire quello che sentiva il mio personaggio, e a muovermi come si muoveva il mio personaggio. Sono finita in una specie di torpore. E mi sentivo sospesa, a metà di tante cose».
Che effetti ha avuto su di te quest’esperienza?
«Mi ha fatto capire quanta differenza c’è tra il mio modo di vivere la vita e quello del mio personaggio. Ho avuto bisogno di tempo e di un altro set per potermi distaccare completamente da Malamore».
Riprendo anche io la frase di Piera Degli Esposti e ti chiedo: se il compito dell’attore è consolare, chi consola l’attore?
«Probabilmente l’attore viene consolato dal tempo. E con il tempo serve anche crescere, e crescere è possibile soltanto grazie al riscontro e alla fiducia degli altri. Questo mestiere, in tanti aspetti, è un atto di fiducia. Dipende molto da noi, dagli attori, ma noi non abbiamo quasi mai il controllo di ciò che portiamo in scena».
Qual è la cosa più difficile?
«Programmare. Prendere una direzione netta, precisa. Una direzione che scegli tu da sola. Noi attori non siamo soltanto sotto esame; siamo anche costretti ad aspettare molto, molto tempo per sapere come sono andati questi esami».
Fare l’attore significa anche passare molto tempo da soli con sé stessi.
«Sì».
E che tipo di esperienza è quella?
«Non è mai facile stare a contatto con sé stessi, ma per questo lavoro è necessario. Serve andare a pescare nel proprio passato e nelle proprie esperienze. E poi recitare è come una giostra. Estremamente altalenante. Ci sono dei momenti di solitudine profonda in cui si cresce, e si cresce tanto. In altri momenti, invece, ti sembra di essere circondata da tantissime persone, ma non appena torni a casa questa bolla di sapone esplode e ritorni in una dimensione che può essere ancora più alienante. Sul set vivi esperienze e cose diverse; e queste cose ti possono allontanare da chi ami».
Che cos’è che serve?
«Serve sapersi bastare».
Il tempo, mi hai detto, consola. Quanto è difficile, però, riuscire a trovarlo per sé stessi?
«Questo è un mestiere che ci regala tantissimo tempo. Quando giri qualcosa, sei focalizzato sul set, è vero, e dipende sempre da qualcun altro. Io, poi, non sono una persona molto organizzata. Vivo alla giornata: vivo in base a quello che mi va di fare, e non ho la più pallida idea di che cosa farò domani, dopodomani o la prossima settimana. Quando sono su un set, devo adeguarmi a ritmi particolari. E quando il set finisce il tempo si dilata».
E basta?
«Non basta. All’inizio sembra tantissimo, ma poi mi viene voglia di fare tante, troppe cose. E non ce la faccio a farle tutte. Quindi passo poco tempo in casa, sto sempre in giro; e a un certo punto sento come una necessità tornare a me stessa, alla tranquillità».
Avendo cominciato a recitare a 18 anni, credi di esserti persa qualcosa?
«No, assolutamente no. Ho cominciato a recitare subito dopo il liceo classico; mi sono trasferita a Roma per studiare, e ho studiato – credimi – giorno e notte. Ho dedicato ogni parte di me stessa, anche la più piccola, a questo lavoro. Sai che cosa mi sono persa, forse? Il tempo per prendermi cura di me. Ero entrata in un loop: più facevo e più volevo fare. Ma rifarei tutto dall’inizio alla fine. Sono passati 10 anni, oramai, e non rimpiango niente».
Com’è stata l’infanzia a Orvieto?
«È stata un’infanzia colorata. Ho passato varie fasi. Sono stata prima una bambina molto vitale ed eccentrica; poi, crescendo, ho toccato un pudore e una timidezza profondissimi. Al liceo, invece, ho ritrovato quell’anima che avevo da bambina. Ed ero abbastanza ribelle. Orvieto è una città che amo, ma la apprezzo molto di più ora che quando ero un’adolescente. Vivere in una città dove tutti sanno tutto di te non è stato divertentissimo, ecco. Dentro di me c’è sempre stata questa sensazione di libertà. A Orvieto ho la mia famiglia e la mia comitiva di amici, e quando torno a casa per le feste proviamo sempre a ritrovarci».
Sei figlia unica?
«Sì».
Che differenza c’è tra la solitudine dei figli unici e la solitudine degli attori?
«Una volta alle elementari una maestra disse a mia mamma che era convinta che, per come mi comportavo, avessi almeno cinque fratelli. Quindi ti direi che sono sempre stata una figlia unica un po’ atipica. A me è quasi dispiaciuto non avere qualcun altro con cui confrontarmi. Questo, poi, è un lavoro che non puoi fare da sola; devi sempre collaborare con qualcuno, anche nella preparazione. Come figlia unica mi è dispiaciuto focalizzarmi solo su di me».
Come hanno reagito i tuoi genitori quando hai deciso di trasferirti a Roma?
«All'inizio mia mamma è stata un po’ più incerta, e credo che tu abbia già sentito questa risposta altre volte. Mi ha sempre consigliato di concentrarmi sullo studio e sulle lingue, proprio per avere un futuro. Mio padre, invece, ha un animo più artistico. Per un periodo, ha fatto anche il dj. Non mi ha mai detto nulla. Il tema università, forse, ha toccato più me che loro; è qualcosa a cui tenevo e su cui mi sono molto interrogata. Ci ho pensato, a un piano B. Poi però ho deciso di provarci fino in fondo impegnandomi al massimo. Sono fatta così, te lo dicevo. O do tutto o non lo faccio per niente. Quindi ho scelto solo il piano A e ho studiato alla YD Actors di Yvonne D’Abbraccio. È una sfida che ho imposto a me stessa; nessun altro mi ha mai dato dei limiti».
Avere a che fare con il mondo esterno, quindi con il mondo del lavoro, può essere una doccia fredda?
«Considera che, dopo qualche mese che studiavo, ho fatto il mio provino ed è andato bene. E all’inizio ero veramente entusiasta. Poi, però, sono arrivati i no. E i no, soprattutto in quella fase, fanno male».
Dopo qualche tempo, invece?
«Diventano i tuoi migliori amici. E non lo dico per dire. In un primo momento fanno male perché non riesci a separare il lato personale da quello professionale; pensi di essere sbagliata tu, come persona. Ma non è così. C’entrano altre cose, altre sfumature. Se impari a leggere bene un no, capisci dove migliorare, cosa serve e metti a fuoco il progetto. Devi fare un lavoro profondo su te stessa per impararlo».
Cos’è importante all’inizio?
«Impegnarsi per rialzarsi e andare avanti; impegnarsi per vedere questo lavoro per quello che è: un lavoro, appunto. Noi utilizziamo noi stessi, ciò di cui siamo fatti, i nostri sentimenti. Per questo è facile confondere l’aspetto professionale con quello personale. Ed è importante non farlo, perché c’è il rischio di distruggersi».
Ti è capitato di rivedere ultimamente High School Musical?
«No. (ride, ndr) Però è una hit e resterà sempre una hit. Ma questo perché mi ricorda quello che io e la mia migliore amica facevamo da piccole, gli spettacoli che mettevamo in scena sul divano di casa».
Indossi ancora i gioielli di tua nonna?
«Tutti e due gli anelli, sì. Non li tolgo mai».
Quanto sono importanti gli oggetti per la memoria?
«Il lavoro dell’oggetto, nella recitazione, è importantissimo. A volte, facevamo degli esercizi di sovrapposizione. Provavamo a mettere l’emotivo nell’oggetto, proprio come succede nella vita».
Tu che rapporto hai con i ricordi?
«Sono una persona molto malinconica, ho un rapporto bellissimo con i ricordi. A volte mi vengono in mente cose assurde, dettagli che apparentemente sembrano insignificanti, ma non riesco a mettere a fuoco la sensazione che ho provato in un certo momento».
Se fai uno sforzo, qual è la prima sensazione che ricordi?
«La nostra vecchia casa. Quando ero piccola, guardavo le VHS sul divano. Da sola. Erano tutti cartoni animati, ovviamente. Quando finiva il film, lo rimettevo daccapo. Sono arrivata a consumare i nastri del Re Leone».
Come vivi il giudizio altrui?
«Non ho un bel rapporto con questa cosa, se devo dirti la verità. Il giudizio non mi metto in uno stato di indifferenza, e questo perché sono una perfezionista. E anche questa cosa, se vuoi, va di pari passo con i no. Perché capisci che fa parte del gioco, che succederà sempre e che devi, volente o nolente, farci pace».
Qual è la critica che ti tocca di più?
«Quella delle persone che amo».
L’essere figlia unica, secondo te, ha condizionato la tua scelta di fare l’attrice?
«Io sono estremamente contraddittoria. Pensa che quando ero piccola ho detto a mia madre che, se avesse fatto un altro bambino, non le avrei voluto più bene. Ovviamente scherzavo, figurati. Crescendo ho sentito di più la mancanza di un fratello o di una sorella. E quindi forse sì, alla fine essere figlia unica mi ha condizionato. Anche perché ho proprio bisogno dell’altro per sapere chi sono. Ora mi viene in mente Neva (Leoni, ndr). Per me è una sorella. Sul set de Il Patriarca, ridevamo in continuazione. Claudio (Amendola, ndr) ci voleva strozzare. Ma al di là del set, ci vediamo anche adesso. Chiaramente è difficile incontrarsi, però ci proviamo sempre. Perché ci vogliamo bene».
Che tipo di amica sei?
«Una che dà tanto, a volte pure troppo. Amo far sentire gli altri a loro agio. Una volta, un mio amico mi ha detto che quando sta con me si sente letto e visto. Però anche io ho delle giornate in cui preferisco rimanere da sola e non riesco a dare tutto me stessa. Ce l’ho, questa cosa. All’improvviso sparisco. In altri momenti, invece, voglio sentire tutti».
Perché?
«Per condividere. Per dire a qualcuno che rispetto e a cui voglio bene che cosa penso. Anzi, che cosa provo. Perché parliamo di sensazioni profonde».
A te capita mai di sentirti letta e vista?
«Sì, assolutamente. Quella che mi sono scelta è una vera e propria famiglia. E non c’è bisogno di parlare per riconoscersi. Tutto quello che serve, a volte, è uno sguardo».
Oggi, rispetto al periodo in cui hai iniziato a lavorare, senti di aver trovato più tempo per te stessa?
«Sì. Ho i miei rituali, i miei gesti, e mi prendo decisamente più cura di me. Ho dei momenti che sono soltanto miei. Con gli anni, ho imparato a respirare meglio. Ed è importante respirare, soprattutto in una società come la nostra che ci dice costantemente di impegnarci, di dare il massimo e di dimostrare chi siamo».
Respirare, alla fine, a che cosa serve?
«A non perderci».
La foto di copertina è stata scattata da Riccardo Albanese. Ufficio stampa: Davide Musto. Make-up & Hair: Luigi Alesi. Look: Calvin Klein. Scarpe: Hogan. Location: The Rome Edition.