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intervista
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06.05.2025

SUPERNOVA NR. 35: Anita Pomario

di Gianmaria Tammaro

Dalla decisione di fare l’attrice all’esperienza sul set de L’amore che ho, dove interpreta Rosa Balistreri. E poi la voglia di mettersi costantemente alla prova, la passione per il teatro, i ricordi di New York e di Londra, e l’idea di casa, di cui è sempre alla ricerca. La paura di non sorridere abbastanza e l’innocenza perduta dell’infanzia. L’intervista.

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Ad Anita Pomario piace sorridere. Dice che ha paura di non farlo abbastanza. Dice anche che la bellezza sta nel sapersi godere i momenti, nel vivere – e non nel limitarsi ad attraversare – la normalità. Ne L’amore che ho, il film di Paolo Licata al cinema dall’8 maggio con Dea Film, interpreta Rosa Balistreri. Non mi parla di musica o di voce; mi parla di ricordi e di responsabilità, e poi di energia, di scambi e di consapevolezza.

Anita ha iniziato a recitare da piccola perché nella recitazione ha trovato qualcosa di cui sentiva la mancanza, un mondo da scoprire e da cui lasciarsi avvolgere. Ha conosciuto il teatro a 10 anni. Poi, poco più che adolescente, ha cominciato a viaggiare. Ora è in Italia, e non vede l’ora di scoprire che cosa le riserverà il futuro. Dei tempi a New York, ricorda le giornate passate senza dormire e l’odore. A Londra, per un periodo, si è sentita a casa. Ora casa non è più un luogo fisico, ma un’idea. Ed è di quella idea che è costantemente alla ricerca.

Che tipo di sfida è stata quella di interpretare un personaggio realmente esistito come Rosa Balistreri?
«In questo caso è stata una doppia sfida. Innanzitutto perché non mi era mai successo prima, e poi perché ho interpretato la parte della vita di Rosa meno documentata, quella di cui c’erano meno video e foto. In un certo senso, me la sono dovuta un po’ inventare. Ho dovuto cercare di conoscerla da sola».

E com’è stato?
«Difficile. Perché ho dovuto provare a immaginare il suo modo di parlare, di muoversi e di porsi nei confronti degli altri. L’ho studiata tanto, Rosa. E forse la vera difficoltà, in questo caso, è stata riuscire a rispettare e ad avvicinarsi al ricordo che hanno di lei quelli che l’hanno incontrata».

Un ruolo del genere porta con sé anche una certa dose di responsabilità?
«La responsabilità è stata la prima cosa che ho sentito quando mi è stato offerto questo ruolo. Dovermi muovere entro limiti precisi mi ha, quasi paradossalmente, dato una grande libertà».

In che senso?
«Quando hai delle limitazioni a livello creativo, non senti più l’angoscia di creare delle cose nuove. E io non dovevo creare assolutamente nulla. Dovevo solo affidarmi all’onestà con cui guardare questa donna. Ho provato a metterci me stessa, o almeno: le parti di me stessa più vicina a Rosa. E poi è stato un dialogo continuo con le sue canzoni, con la sua voce, con il suo carattere. E alla fine sono riuscita ad arrivare sul set tranquilla. Libera».

Che cosa ricordi dell’infanzia a Noto?
«In realtà, non sono cresciuta a Noto. Sono nata a Noto perché a Rosolini, la mia città, non c’era un ospedale».

E com’è stata, allora, l’infanzia a Rosolini?
«Rosolini è una cittadina al di fuori del mondo, secondo me. Quando ci torno, mi mette sempre serenità. Perché non è mai cambiata. E lo so, da un certo punto di vista questa cosa è estremamente spaventosa, ma con me ha l’effetto opposto. (ride, ndr) Mi ricordo che da bambini giocavamo in strada, una cosa che oggi non si potrebbe fare. Giocavamo a questo gioco che si chiama “i quattru pizzi e cantunera”. E passavamo le nostre giornate così, correndo in giro. E credo che quel momento lì della mia vita sia ancora il più felice. E non avevamo niente, credimi. Non c’erano distrazioni».

Hai detto in un’intervista che cominciando a lavorare questa spensieratezza se ne è andata via, o comunque si è ridotta. Perché?
«Perché quelle distrazioni che prima non c’erano oggi sono anche troppe. E troppe distrazioni creano confusione e portano aspettative, e quindi quella capacità di vivere il momento per ciò che è va via insieme alla spensieratezza».

Ed è quando va via la spensieratezza che si diventa adulti?
«No, io credo che si diventi adulti quando si riesce a convivere sia con la spensieratezza che con le distrazioni. Quando, cioè, si arriva a una consapevolezza maggiore dei momenti più complessi. Una consapevolezza che, da bambini, non abbiamo».

Ti manca quella semplicità?
«Sì, certo».

E credi che sia per questo, per rievocare quell’innocenza, che hai deciso di recitare?
«No. Io sono cresciuta facendo questo mestiere, o comunque giocando a fare questa cosa. E ho sempre voluto farlo perché più che l’innocenza a me piace quella sensazione di pericolo che si prova sul palcoscenico o interpretando un personaggio. C’è sempre un momento in cui sei sul precipizio, e trovare un equilibrio è quasi una questione di vita e di morte. E la cosa incredibile è provare questa sensazione in un posto relativamente sicuro, come quello dell’arte. Per me è un motore».

Chi sono Federica Bisegna e Vittorio Bonaccorso?
«Sono stati i miei primi maestri di teatro. Sono stata con loro da quando avevo 10 anni a quando ne ho fatti 18. E mi hanno insegnato tantissimo. Mi hanno mostrato un mondo pieno di testi e di autori, e per una bambina com’ero io è stato come entrare in un parco giochi. E tutte queste cose, alla fine, sono diventate una parte importante di quella che sono oggi».

Prima mi dicevi che facendo questo lavoro si sente come una voglia di mettersi alla prova, di stare sul filo del rasoio. Per te, però, il palcoscenico è un posto sicuro.
«Sì. (ride, ndr) Diciamo che è un concetto un po’ complesso, anche se per me è lineare. Io non credo nella sicurezza delle scelte, e se ne devo prendere una preferisco prenderne una non sicura. A me non piacciono le cose a metà o annacquate. A me piace andare in un verso preciso, avanti o indietro. Non mi piacciono le vie di mezzo. E sotto questo punto di vista, le scelte che prendo sono uguali. Sia in teatro che al cinema. Pensa, appunto, a Rosa. Non sono mai scesa a compromessi, e questo mi ha sempre spaventata. Quando però dico che il teatro è un posto sicuro, mi riferisco alla sua sacralità: in teatro, possiamo fare qualunque cosa; possiamo mettere in scena Medea che ammazza i suoi figli; ma sappiamo, e sappiamo inconsciamente, che nonostante la meraviglia non è vero. E questa distanza permette di affrontare i propri incubi e le proprie parole».

Quanto sono importanti gli errori?
«Più che gli errori, è importante darsi la possibilità di sbagliare. È lì che secondo me si apre un vero e proprio mondo».

L’istinto, però, non ci dice di non esporci?
«Assolutamente. Io ti parlo di queste cose, ma è una filosofia che è legata al lavoro. Non tanto alla mia vita. Questa libertà non riesco a darmela nella mia quotidianità. Nella vita di tutti i giorni, questo discorso che ti sto facendo riesco ad applicarlo solo una volta ogni tanto. Nella vita di tutti i giorni, sono più insicura, più fragile, e fa paura avere a che fare con i giudizi degli altri e, soprattutto, con le nostre aspettative».

Qual è il tuo film preferito di Aldo, Giovanni e Giacomo?
«(ride, ndr) Tre uomini e una gamba».

Quante volte l’hai visto?
«Almeno quindici, credo. Ogni volta che lo vedo, mi sento a casa. Mi fa sentire bene. Ho cominciato a rivederlo più spesso quando stavo fuori, quando non ero in Italia. Rivederlo mi permetteva di riconoscere qualcosa di familiare».

Che cosa ricordi del tuo periodo a New York?
«Sicuramente è stato il periodo più assurdo della mia adolescenza e della mia esperienza. Ricordo che andavo avanti per settimane intere con pochissimi soldi. A New York, che è un posto costosissimo. Riuscivo a non dormire per tre giorni di fila e ad andare a scuola – una cosa che, oggi, non riuscirei a fare. E poi ricordo l’odore di New York, che è sempre lo stesso, che non cambia mai. Ricordo le tantissime persone che ho incontrate. Pensa che, a un certo punto, ho messo giù una lista con tutti i nomi».

La conservi ancora?
«No, purtroppo l’ho persa».

Quando pensi a Londra, hai detto, pensi a casa e al futuro.
«Se dovessi farlo adesso, non ci penserei. Quella cosa l’ho detta, credo, due anni fa. Casa per me non è più un luogo fisico, dove tornare. Casa è diventata una condizione, che è sempre più difficile da trovare. E questa è una ricerca che continuo a fare, che non smette mai».

Che cosa hanno in comune la ginnastica artistica e la recitazione?
«La precisione, la concentrazione e la disciplina. Nella ginnastica artistica c’è un livello di agonismo che richiede una dedizione completa, ed è una cosa che secondo me appartiene anche alla recitazione. E c’è pure la stessa ossessività nella ripetizione delle routine, delle battute e dei movimenti».

Nella danza, invece, c’è più libertà?
«A livello creativo forse sì, ma la dedizione è identica».

Ti capita mai di ballare da sola?
«Moltissimo. Prima succedeva di più, ultimamente di meno».

Come mai?
«Mi lascio condizionare dai giudizi degli altri. Diventa difficile, a volte, lasciarsi andare. Però sono periodi; non è sempre così».

È difficile convivere con il giudizio di sé stessi?
«Io parlo molto con me stessa, e mi pongo tante domande. Forse troppe. Mi interessa capirmi e studiarmi, proprio come se fossi un’altra persona. È una costante, questo sì».

Che attrice sei diventata in questi anni?
«In un certo senso, c’è stato un ribaltamento tra la vita di ogni giorno e la vita sul palcoscenico. Prima non avevo paura di niente, e sul palco ero molto insicura. Oggi non è così. Oggi è l’esatto contrario: ho molte insicurezze nella vita di ogni giorno, sono diventata più cauta, come se la materia di cui sono fatta fosse più fragile; e sul palco, invece, mi sento rilassata».

Sei diventata l’attrice che volevi essere?
«Sono a un buon punto, secondo me. E non vedo l’ora di vedere dove riuscirò ad arrivare».

Tempo fa, hai detto che ti interessa fare solo cose belle.
«Ed è un principio che proverò a difendere sempre, a cui tengo veramente tanto. Se ci sono riuscita fino a ora, significa che si può fare. Forse la mia idea di bello è un’idea particolare. Ma mi piace tenere le mie aspettative alte».

Come si riconosce la bellezza?
«Le cose belle si riconoscono dal modo in cui ti muovono. Se guardi una cosa e ti sorprendi, vuol dire che è una cosa bella. E vale anche per le persone».

La sorpresa può essere influenzata dalla paura?
«No, la sorpresa no. Anzi, credo che questa idea di bellezza sia completamente separata dalla paura».

La paura non può essere anche un motore?
«Non lo so se serve, la paura. Ci penso spesso. E non l’ho ancora capito».

Tu di che cosa hai paura?
«Di così tante cose. (ride, ndr) Forse di non amare abbastanza e di non essere amata abbastanza. Anzi, ecco: di non sorridere abbastanza».

Cos’è che oggi ti fa sorridere?
«Quando riesco a respirare. (ride, ndr) Quando riesco a godermi quello che mi sta succedendo. Quando riesco a vivere la normalità».

La foto di copertina è stata scattata da Julia Avgusta Morozova. Total Look: Chanel by Skof Archive. Ufficio stampa: Mpunto Comunicazione. Stylist: Francesca Ferretti. Hair: Marica Abbascià. Make-up: Martina Porcelli.