di Gianmaria Tammaro
Dall’esperienza in Inghilterra ai tre anni alla Silvio D’Amico, dalla grande prova del teatro alla consapevolezza ritrovata sui set di cinema e tv. E poi la paura per il futuro, per il tempo che passa, la passione per la scrittura e la sua idea di amore. L’intervista.
Verso la fine di quest’intervista, Caterina De Angelis mi dice che la pratica dell’amore è quella che Franco Battiato descriveva come «centro di gravità permanente». Perché l’amore, mi spiega, non deve essere per forza passione o possesso; e non bisogna soffrire per sentirsi amati. L’amore, dice Caterina, è come un’ancora e deve portare con sé tranquillità. L’ultima volta che ci siamo sentiti è stato alla fine del 2021. In quel periodo si trovava in Inghilterra per studiare cinema. Oggi, invece, è a Roma e si è iscritta all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico.
Durante i tre anni di corso, ha imparato a gestire il suo corpo, a controllarlo e a usarlo come uno strumento di scena. Grazie alle sue esperienze precedenti (ha preso parte a Vita da Carlo di Carlo Verdone, e ha recitato in Volare, opera prima di sua madre, Margherita Buy), è stata in grado di tenere una distanza tra sé e una certa idea di recitazione come missione assoluta. In Accademia ha trovato compagni e amici, ha scoperto il teatro e ha capito come confrontarsi con i suoi limiti. Non ha alcun problema quando è sul set, davanti a una camera, mi dice; ma non riesce a fare a meno di tenere in considerazione gli spettatori che la guardano in teatro. Il suo nuovo film, in sala in questi giorni con Vision Distribution, è L’amore, in teoria, diretto da Luca Lucini.
L’ultima volta che ci siamo sentiti eri in Inghilterra e stavi studiando cinema all’università di Exeter. Oggi sei in Italia e ti sei iscritta alla Silvio D’Amico.
«L’Accademia, per me, è stata la scelta più giusta che potevo prendere per il mio percorso».
Perché?
«Perché mi ha permesso di incontrare quelle persone che, sono sicura, mi accompagneranno anche in futuro. È una cosa molto importante, specialmente in questo lavoro. Ed è stata un’esperienza meravigliosa anche dal punto di vista della formazione. Prima avevo studiato solo cinema. Ora, lavorando molto con il teatro, ho avuto la possibilità di imparare a usare il mio corpo, a gestirlo e a riconoscerlo come strumento nella recitazione».
Frequentare l’Accademia dopo aver lavorato su diversi set ha influito, secondo te, sulla tua esperienza?
«Assolutamente. Se non conosci questo lavoro, se non l’hai mai fatto, finisci per pensare che ogni cosa, qualunque cosa, sia utile o fondamentale. E finisci per sentire una certa frustrazione quando questo valore, in una lezione o in un insegnante, non ti è immediatamente chiaro. Invece io ho avuto una specie di filtro. Avendo già sfiorato questo mondo, ho imparato a scegliere tra le cose, tra quelle utili e quelle meno utili. Insomma, l’esperienza precedente sui set mi ha permesso di vivere l’Accademia in modo molto più maturo, meno – diciamo così – liceale».
Chi frequenta l'Accademia si ritrova in una specie di bolla?
«Più che una bolla, la nostra è una setta. (ride, ndr) Scherzi a parte, sì, c’è questa sensazione di chiusura, di mondo a parte. È una sensazione che ho riconosciuto immediatamente. Quello dell’Accademia è un ambiente meraviglioso, ma se viene preso in un certo modo, quasi ossessivamente, rischia di portarti fuori strada».
E in che cosa consiste questa ossessione?
«A volte, non sempre, può succedere di pensare che solo quello che succede in Accademia, tra quelle mura, sia importante».
E invece?
«Invece non è così. È uno degli effetti collaterali di un approccio troppo chiuso».
A te è capitato di pensarla in questo modo?
«Mi è capitato, sì, e mi ha messo molto in crisi. Quando lavori, e ti arrivano provini di vario genere, non trovi sempre quello che ti aspetti o che speri; non ci sono solo Shakespeare o Schiller. Finisci per fare confronti senza senso. Fortunatamente, però, è una fase».
E quanto dura questa fase?
«Di solito arriva durante il secondo anno di Accademia. (ride, ndr) Al primo anno, stai ancora prendendo le misure del mondo che ti circonda. E al terzo cominci a fartela sotto per quello che ti aspetta dopo. Al secondo anno te la puoi godere».
Manca, secondo te, una consapevolezza rispetto a quella che è la realtà del mestiere? E quindi precario, difficile, non per forza costante.
«Sì, ti direi di sì. L’ambiente dell’Accademia è, per certi versi, estremamente romantico. Ti prepara tantissimo, sotto diversi punti di vista, sulla recitazione di per sé. Meno, invece, alla pratica del nostro mercato e del nostro cinema, dove i ruoli non sono sempre memorabili e dove spesso non c’è abbastanza tempo per studiare ogni cosa. A volte, devi adattarti. E questa consapevolezza, facendo solo l’Accademia, è difficile trovarla. Io l’ho trovata grazie alle esperienze che mi è capitato di fare prima».
Quando si capisce di essere diventati attori?
«Io non l’ho capito, ti dico la verità. Ho capito però di essere innamorata di questo mestiere. È un po’ come una promessa di matrimonio: ci sono tutti i presupposti perché vada bene, ma non lo sai con certezza fino alla fine. E ora, francamente, non so dirti se questo matrimonio sarà senza problemi. Ancora non riesco a dire di essere un’attrice».
Come si riconosce un attore?
«È qualcuno che vive il quotidiano con un’immensa profondità. La parola chiave di questo mestiere, secondo me, è “sguardo”. E quindi è fondamentale provare curiosità nei confronti degli altri. Non si può essere attori quando si è rivolti principalmente verso sé stessi».
In Parthenope di Paolo Sorrentino, il professor Marotta di Silvio Orlando dice che vedere è difficilissimo, perché è l’ultima cosa che si impara.
«Sono d’accordo a metà. Secondo me, è la prima cosa che si impara e che poi si dimentica. E quindi, per tutta la vita, ci dobbiamo impegnare per tornare a quell’istinto, a quella forza, che avevamo da bambini».
Che forza è quella dei bambini?
«I bambini vedono il modo in un certo modo, che non significa più semplice o più scontato; significa che è un modo diverso rispetto a quello che hanno gli adulti per interpretare la realtà. I bambini imitano i gesti, li ricreano, sono spontanei. Provano a conoscere gli altri attraverso lo sguardo. Sanno vedere, ecco. E con il tempo questa capacità viene persa, e noi non possiamo fare altro che provare a ritrovarla. Perché c’è ancora, è dentro di noi, ma è sepolta sotto ciò che siamo diventati crescendo».
Su un set, dove ci sono tantissime direzioni, è difficile conservare la propria istintività?
«Molto. E non so dirti, onestamente, se l’ho mai trovata sul set. Sicuramente l’ho trovata in teatro. Ma non per quel snobismo di cui parlavamo prima. Semplicemente perché c’è una differenza sostanziale, profonda, tra le due esperienze».
Dove sta questa differenza?
«A teatro hai il lusso, e il dovere, di vivere fino in fondo il tuo personaggio. Quindi con i suoi alti e bassi, con le sue contraddizioni e con la sua crescita. Rimani in compagnia del tuo ruolo per molto, molto tempo».
Invece sul set?
«Sul set, spesso, non si gira in ordine cronologico. E quindi è difficile tracciare una vera e propria crescita per il personaggio. C’è la scena, e c’è quello che il regista ti chiede. E poi ci sei tu, che devi provare a tenere tutto insieme. Io sto ancora imparando. Sono poche le volte in cui un attore entra davvero, fino in fondo, in una storia e in un ruolo. Non credo che sia facile riuscirci ogni volta».
Perché?
«Diciamo che è come infilare un filo nella cruna di un ago: ci riesci, alla fine; ma è veramente raro riuscirci al primo colpo. Con un personaggio devi fare la stessa cosa. E a me, personalmente, è successo poche volte sul set».
Tra le controindicazioni del teatro può esserci l’enorme sovraesposizione? Dopotutto non ci sono camere, stop o pause. È buona la prima.
«Questa è una visione giusta solo fino a un certo punto. Voglio dire, è vero che quando vai in scena vai in scena e non ci sono pause e non c’è nessuno pronto a darti indicazioni. Però, prima di andare in scena, si prova tantissimo. E alla fine lo spettacolo e il personaggio che interpreti entrano dentro di te; sono quasi un’estensione. O almeno, ecco, io l’ho sempre vissuta così».
Non c’è il rischio di sbagliare?
«Il rischio di sbagliare c’è sempre, figurati, ma con la preparazione è possibile ridimensionarlo. Pensa che io, un mese fa, ho avuto il mio primo blackout in scena: all’improvviso non ricordavo più cosa dovevo dire e cosa dovevo fare. Tutto può succedere».
Che spettacolo era?
«Il panico di Raphael Spregelburd. Uno spettacolo stupendo, divertentissimo, con la regia di Valentino Villa che io adoro. Ecco, in quello stesso periodo stavo girando un film. Avevo provato, sì, ma forse troppo poco. E quando mi sono ritrovata in scena, al minimo cambiamento, mi sono persa».
E come ne sei uscita?
«Mi hanno aiutata gli altri. I tuoi compagni, a teatro, sono una delle tue più grandi risorse. All’esterno, parlandone con alcune persone che erano venute a vedere lo spettacolo, sembrava quasi una scelta precisa. La scena era una seduta dallo psichiatra, e la mia titubanza aveva un senso. In realtà, però, è stato un blackout».
Come ti sei sentita subito dopo?
«Quando sono uscita di scena, ho avuto quasi un attacco di panico. Volevo fermarmi. Poi però sono tornata sul palco, anche perché avevamo altre cinque repliche da fare».
È un’esperienza che, in qualche modo, ha i suoi lati positivi?
«Assolutamente. Ti riporta con i piedi per terra. Confesso che, prima di questo blackout, mi sentivo un po’ invincibile: riesco a fare tutto, mi dicevo; film, spettacolo, tutto. E poi, mi dicevo, mi fido di me. Ma a volte la fiducia non basta. Serve fermarsi e dedicarsi completamente a una cosa, almeno all’inizio, proprio per farla nel migliore dei modi».
Che cosa conta?
«Ogni tanto è importante prendersi del tempo per capire come stiamo. Se vuoi, questo blackout è stata una risposta del mio corpo che mi ha detto di calmarmi».
La consapevolezza di essere guardati dal pubblico, per tutto il tempo, è una consapevolezza con cui è facile convivere?
«Il pubblico, alla fine, fa tutto. Sembra paradossale, lo so, ma è così. In Accademia ci siamo confrontati su questo punto, e se per me la camera non esiste e non è un problema, non vale lo stesso con gli spettatori in teatro. Sono molto dipendente dalle loro reazioni. Se una cosa che la sera prima ha fatto ridere ora non fa più ridere, sento una certa secchezza delle fauci. (ride, ndr) Per alcuni compagni di corso, è l’opposto. Immagino che dipenda dal singolo attore. Io sono un po’ una pleaser, ecco. Ma sto cercando di cambiare».
Nel corso di questi anni, dopo tutte le esperienze che hai fatto, in che modo è cambiata, se ovviamente è cambiata, l’idea che hai di te stessa?
«Diciamo che è una cosa a cui cerco sempre di non pensare, perché mi fa paura. E in particolare mi fa paura quello che gli altri, davanti alla mia confessione, potrebbero dire. Questo è un lavoro in cui, alla fine, metti in gioco te stessa: sei tu lo strumento. La mia medicina è circondarmi di persone positive, è provare a tornare al mio centro. Sono molto intimorita da questo lavoro. Lo amo, intendiamoci; lo amo con tutta me stessa, e forse visto che lo amo così tanto ne ho anche paura».
Come si combatte questa paura?
«Stando attenti».
Che cosa ti auguri?
«Di avere una carriera, quindi di seguire un percorso lineare. Spero di non ritrovarmi in successi improvvisi ed esplosivi. Non voglio che questo lavoro mi scoppi tra le mani».
La paura, lo dicevamo prima, può essere anche sana.
«Certo. E infatti questa, più che paura, è consapevolezza».
Che rapporto hai con la solitudine?
«Prima avevo un rapporto stupendo. L’ho sempre associata alla scrittura. Questi tre anni di Accademia mi hanno molto allontanata dalla solitudine. E credo che sia normale. È un’altra cosa di cui parlo spesso con i miei compagni. Ora come ora, per me è veramente difficile rimanere da sola. Questa fase della mia vita è così. Ci dovrò lavorare di nuovo dopo l’Accademia».
Perché ti piace così tanto scrivere?
«Perché mi permette di ritrovare quella cosa di cui parlavamo prima: quell’istinto di voler capire, quel desiderio di indagare le domande che ci facciamo. Io non voglio trovare la risposta. O almeno, non è solo quello che mi interessa. A me interessano le domande che restano sospese, e quello che mi piacerebbe fare è allargare le mie domande agli altri. Proprio per non rimanere sola nelle mie paturnie, nelle mie “sturm und drang” come dicono i miei compagni di classe (ride, ndr)».
Ti è mai capitato di scrivere non soltanto per te stessa ma per gli altri?
«No, non ancora. Però ci sono delle persone a cui mi piace sempre far leggere quello che scrivo. La mia migliore amica, per esempio, e mia madre».
Perché proprio loro?
«Perché mi conoscono e non devo spiegarmi troppo. Non devo dare nessuna motivazione per quello che scrivo».
Ti piacerebbe lavorare all’estero?
«È una mia ossessione. Io sono terrorizzata dal tempo che passa, e così mi sento sempre in ritardo, sempre indietro. E il tempo mi fa paura proprio perché voglio fare un sacco di cose. Voglio tornare a Londra, trovare un’agenzia lì. Oppure in America, non lo so. In generale, mi piacerebbe espandere i miei orizzonti. In questi tre anni in cui sono stata a Roma, tutto mi è sembrato fermarsi».
L’Italia ti sta un po’ stretta?
«Nì. Molti dei set internazionali che girano qui in Italia non vogliono attori italiani, o almeno non sembrano averne bisogno. Però ci sono tantissimi registi nel nostro paese veramente bravi, con cui mi piacerebbe lavorare».
Il film di cui sei protagonista, ora in sala, si intitola L’amore, in teoria. Qual è, invece, la pratica dell’amore?
«È quella cosa di cui parlava Franco Battiato quando cantava: “Cerco un centro di gravità permanente / che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente”. Ecco, io l’ho sempre interpretata un po’ così. Non vedo l’amore come qualcosa di struggente o di disordinato. L’amore non ti deve mettere in crisi per essere vero. E non è possessione o rabbia, ed è importante ribadirlo, soprattutto adesso. Io associo l’amore alla calma, alla quiete, a qualcosa capace di legarti a terra e a te stesso. L’amore è un’ancora».
Tu l’hai trovato un centro di gravità permanente?
«Credo di essere stata fortunata in amore. Un centro di gravità permanente, se vuoi, l’ho sempre vissuto e trovato, in tutti i miei rapporti. La scelta delle persone con cui ho condiviso fino a questo momento la mia vita è una delle cose che mi rendono più fiera».
La foto di copertina è stata scattata da Elena Maggiulli. Production & Art Direction: Piano B Studio. Stylist: Emanuela Cinti. Make up & Hair: Sara Petrucci. Stylist Ass.: Giulia Chiatroni.