di Gianmaria Tammaro
Dal ritorno in teatro con Scene da un matrimonio alla decisione di prendere casa a Venezia, dalla sua infanzia divisa tra Stati Uniti e Italia al duro impegno che richiede la recitazione. E poi l’esperienza quotidiana, la passione per il disegno, l’amore per la musica e la voglia di essere sempre diversa. L’intervista.
Dopo essere stata in tournée con Scene da un matrimonio, Sara Lazzaro ha capito di non riuscire a fare a meno del teatro. L’ultima volta che è andata in scena risale al 2019, prima della pandemia, e solamente l’anno scorso, con questo nuovo spettacolo, ha ritrovato la dimensione del palcoscenico. Dice che ci si sente liberi, lavorando in teatro. Liberi e senza limiti. Ogni sera, mi racconta, è diversa. Ed è quasi impossibile riuscire a prevedere come andrà una nuova replica. Cinema e teatro, sotto questo punto di vista, sono estremamente diversi. E nella loro diversità, mi spiega Lazzaro, sono complementari.
Ha viaggiato fin da bambina, e si è divisa tra Stati Uniti, Inghilterra e Italia. Ha trovato la sua casa a Venezia, dove ha passato gli anni immediatamente successivi al liceo. Non le pesa spostarsi in continuazione. Anzi, le piace avere un posto suo, in cui potersi fermare. Da piccola giocava a calcio, e amava stare indietro, in difesa, per avere uno sguardo su tutto il campo. Oggi si augura di poter andare avanti, di non fermarsi, e soprattutto di non ripetersi. Non ha mai amato frenarsi, e non vuole cominciare ora.
Perché hai scelto di abitare a Venezia?
«Me ne sono innamorata quando ho frequentato la Iuav, e devo dire che dopo aver vissuto in molti posti, dall’America a Londra e a Roma, Venezia è la città in cui mi sono sentita più a mio agio. E così, quando ne ho avuto la possibilità, ho preso casa qui. È stato un regalo che ho voluto fare a me stessa».
Sei stata in teatro per molto tempo con Scene da un matrimonio.
«Sì».
Che tipo di esperienza è stata?
«Finisci per portarti dietro ogni replica. E poi è un testo mastodontico. Per i temi, per la struttura e per l’impegno psicofisico che richiede. Siamo sempre stati in scena, io e Fausto Cabra. Ed è stata un’impresa imparare a memoria sessanta pagine di dialoghi intensi. Io, in genere, non sono una persona che si limita nel darsi. E quindi per me è stato un viaggio continuo».
E che cosa succede quando ci si dà così tanto per uno spettacolo?
«Io ricordo che anche l’anno scorso, durante l’allestimento, ho sognato tanto questo spettacolo. Non lo abbandonavo mai, nemmeno mentre dormivo».
Quest’anno, invece, com’è andata?
«È stato incredibilmente intenso. Abbiamo fatto ventidue date e cambiato sedici teatri. Quindi ci siamo spostati spesso».
E quando si viaggia così tanto, è una sfida ulteriore?
«È come ricominciare da zero ogni volta, e ogni volta ti devi abituare a un nuovo spazio, devi riprendere le misure del pubblico e calarti completamente in una nuova città. Questo è un testo, poi, che ti si attacca addosso».
In che senso?
«Cambia insieme a te, e io in questi due anni sono cambiata tanto. Scene da un matrimonio ha preso, così, un’altra forma. La mia Marianna è appoggiata su di me, ed è bellissimo vederla crescere replica dopo replica. Ho cominciato a rendermi conto di quello che è successo, di questa esperienza, quando sono andata alle prime letture della nuova stagione di Call my agent – Italia. E come tutte le cose, è importante avere il tempo per pensarci. Probabilmente, in futuro, riproporremo questo testo».
È una fatica a cui, a un certo punto, ci si abitua?
«Il corpo, per un attore, è la cosa più importante. E quindi serve allenarlo. Scene da un matrimonio è uno spettacolo estremamente stancante dal punto di vista fisico e richiede tantissimo. Non abbiamo microfoni, usiamo la nostra voce. E questo per essere il più liberi possibile all’interno dello spazio. Durante questa tournée, mi sono fatta male diverse volte. Quindi alla fine ne esci provato».
Però?
«Però il corpo non mente, e se riesci ad ascoltarlo riesci anche a superare questa fatica. O almeno, ecco, a conviverci».
C’è un momento, prima di andare in scena, in cui si capisce come andrà lo spettacolo?
«Per me è sempre una sorpresa. Ma sono molto importanti i primi attimi e le prime battute che dici».
Perché?
«Sono come le note di un pezzo jazz: finiscono per influenzare tutto il resto. All’inizio dello spettacolo, quando ancora le luci sono spente, noi siamo sul palco, con il sipario aperto, e ci prepariamo. E mentre ci prepariamo, possiamo sentire gli spettatori: se parlano, cosa si dicono, o se restano in silenzio. In questo modo, se vuoi, possiamo prendere la temperatura dell’ambiente, e calarci lentamente al suo interno».
E il pubblico?
«Il pubblico, di solito, è molto attivo. Partecipa. Ed è una cosa che non ci aspettavamo minimamente quando abbiamo cominciato ad allestire lo spettacolo».
Il teatro spaventa?
«Spaventa, sì, ma ti invita anche a crescere, ad affrontare le tue incertezze. C’è una tensione molto simile a quella sessuale e a quella di pericolo, e questo brivido, questa energia, la senti in continuazione».
Non c’è il rischio di finire assuefatti?
«Ammetto che negli ultimi anni non ho fatto molto teatro. L’ultima volta che sono andata in scena prima di questo spettacolo è stata nel 2019. Poi mi sono concentrata sulla tv e sul cinema. Però riconosco che, dopo questa ultima tournée, avverto una mancanza. Forse, la cosa migliore è riuscire ad alternare teatro e cinema, perché finiscono per bilanciarsi a vicenda. Il brivido del palco non c’è sul set, ma la dinamica del set difficilmente torna sul palco. Scene da un matrimonio è arrivato un momento perfetto; è stato come se l’universo avesse risposto al mio bisogno».
Di che bisogno si tratta?
«Il palco ti ricorda del tuo corpo, di ciò che ti serve, dei tuoi limiti. Il palco ti risveglia, ed è bello sentire il bisogno di ricominciare».
Hai vissuto per molto tempo nel Regno Unito.
«Sì».
Quindi ti chiedo: colazione all'inglese o cornetto e caffè?
«Dipende dal giorno. (ride, ndr) A volte ci vuole la british breakfast, però io resto più legata al cornetto».
Disegni ancora?
«Ci provo, sai? È una cosa che mi aiuta, e che stranamente mi fa provare un po’ di malinconia. È stata la mia prima forma, il disegno. Quando ero piccola disegnavo moltissimo. Ma quando sono andata al liceo artistico, dove ti chiedono di essere creativa a comando, mi sono sentita sotto una pressione. Mi piace avere un mio spazio e una mia dimensione; soprattutto, mi piace sentirmi libera».
Che cosa hanno in comune la musica e la recitazione?
«Per me la musica, il suono, restano tra le cose più alte. Trascendono il linguaggio verbale. Vanno oltre, e toccano tutti quanti. Non ci sono barriere che possano trattenerli. Forse la musica e la recitazione hanno in comune il viaggio che fanno, con un inizio, un percorso preciso e una fine, e la capacità di comunicare oltre un codice prestabilito. E io uso la musica anche per preparare i miei personaggi. Ho dei brani che fanno da chiave, e altri che invece mi accompagnano nello studio. Ho trovato la musica come autodidatta, quasi istintivamente. La recitazione, secondo me, ha degli elementi in comune con il disegno. Entrambi fanno perno sull’osservazione. E questo, forse, dipende dai miei interessi e dalla mia preparazione».
Qual è, invece, una canzone tua, che ti appartiene e che senti quasi il bisogno di ascoltare?
«Non credo che ci sia un’unica canzone. Cambio abbastanza di frequente».
Restringiamo il campo, allora. Qual è la canzone con cui identifichi questo periodo della tua vita?
«Qualche tempo fa, ho scoperto questo musicista, Peter Sandberg. E c’è un suo brano, Dismantle, a cui torno abbastanza spesso. È un pezzo malinconico, ma ha un crescendo molto forte. Poi c’è Hold Your Own di Kae Tempest. E personalmente ascolto tantissimo i Queen e i Rainbow Kitten Surprise, un gruppo che ho conosciuto quando ho vissuto a New York».
In che ruolo giocavi quando eri piccola e giocavi a calcio?
«A me piaceva stare dietro, in difesa. Lo so che è una cosa un po’ particolare, soprattutto per una bambina. Ma mi piaceva guardare il campo e provare a prevedere quello che poteva succedere. Correvo tantissimo, non stavo mai ferma; arrivavo in area, a volte».
E ti manca?
«Mi manca molto. Così come mi manca la pallavolo. Purtroppo, con questo lavoro, non riesco a fare molti sport».
L’Italia è un paese che soffre di provincialismo?
«In Italia, rispetto ad altri paesi, ci si aggrappa continuamente al nostro passato e alla nostra cultura. E non dovrebbero essere un’ancora che ci spinge verso il basso, ma un invito ad andare avanti, a fare meglio. Siamo un paese che ha molta paura, questo sì. Del diverso, di ciò che non conosciamo, e soprattutto di cambiare. Il nostro paese è vecchio, e non solo anagraficamente. È granitico nella sua tradizione e nello status quo. È una questione di mentalità, ed è questa mancanza di spazio che poi porta i più giovani ad andarsene. Io amo l’Italia, credimi: la amo davvero. E la amo per chi si impegna, per quelli che danno sempre il massimo, per ciò che, così naturalmente, offre. Ma mi fa anche incazzare, proprio per la lentezza con cui accoglie il cambiamento».
E l’America?
«In America, almeno fino a qualche tempo fa, sono più aperti verso le possibilità. Forse perché è un paese più giovane, più acerbo, e con una corteccia culturale più variegata e con delle fondamenta più labili. Per dirti: non si fanno problemi a dare ruoli da protagonisti agli attori più giovani e sconosciuti. In Italia, quando la possibilità di cambiare è forte, viene vissuta con paura, con diffidenza, come una minaccia».
Tu sei nata in casa.
«Sì, ma non per volontà di mia madre. (ride, ndr) Sono nata velocemente, in questo paesino che si chiama Rovolon. Mia madre è stata aiutata da un’ostetrica che non seguiva un parto in casa da almeno quindici anni. Poi, poco tempo dopo la mia nascita, mia mamma mi ha portato in California dalla sua famiglia. E ho fatto anche la scuola in America. Mi ricordo la quinta elementare, che mi ha consacrata come bilingue. La voglia di spostarmi, di viaggiare, non è mai passata».
Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?
«Se penso all’America, mi viene in mente la spiaggia che era vicino a casa di mia nonna. È una spiaggia chiarissima, piena di alberi, ed è bagnata dall’acqua fredda dell’oceano. E poi ho quest’altra immagine, qui in Italia: ci siamo io e mio fratello che corriamo sul prato del giardino di casa, l’erba morbide, verde e profumata».
Tuo fratello è più grande o piccolo?
«Più grande».
E che rapporto avete?
«Da piccoli eravamo inseparabili. Poi, in adolescenza, ci siamo allontanati. Io a 18 anni sono andata via, mi sono trasferita a Venezia per studiare. E a 20 anni sono andata a Londra. Mio fratello, invece, si è spostato in America a 25 anni. Però ci sentiamo, e negli ultimi anni abbiamo cominciato a riscoprirci proprio persone, non solo come fratelli».
Chi è l’attore?
«Il veicolo di una storia».
Com’eri da bambina?
«Ero molto attiva. E sportiva. Facevo tutto quello che faceva mio fratello. Non mi facevo nessun problema, e non accettavo di avere limiti. Ero curiosa e silenziosa. E poi avevo questo sguardo estremamente malinconico. Se vedi le mie vecchie foto, ce l’ho sempre».
Senti di esserti persa qualcosa?
«Sì, assolutamente. Penso che sia inevitabile. E penso che essere adulti, quest’idea che abbiamo dell’essere adulti, finisca per schiacciarci. Ogni giorno provo a ritrovarmi, e sono fortunata a fare questo mestiere perché mi permette di scoprire e di scoprirmi in tante cose».
Tu oggi sei l’attrice che speravi di diventare quando hai iniziato a recitare?
«Non credo di aver mai avuto degli obiettivi precisi, specialmente quando ho iniziato. Quello che mi piace è andare avanti, scoprire e imparare. Mi sento grata. Faccio questo lavoro, in modo professionale, dal 2008. Il grande pubblico mi ha conosciuto grazie a DOC, lo so, però lavoravo già da diversi anni. Nel 2009, pensa, ho fatto una tournée in Inghilterra. Credo di aver raggiunto diverse tappe nella mia carriera, e sono contenta».
E ora?
«Ora è importante non fermarsi. Ed è importante non ripetersi».
Illustrazione di Valentina “Banjo” Napolitano.