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03.10.2025

Le città di pianura di Francesco Sossai e il viaggio come processo catartico

di Gianmaria Tammaro

Al cinema dal 2 ottobre con Lucky Red, il nuovo film del regista veneto non è mai una cosa soltanto. Cambia con il progredire della storia. Si affida ai suoi tre protagonisti, interpretati brillantemente da Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano e Filippo Scotti, ed esalta i luoghi e gli spazi del racconto. L’approfondimento.

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Le città di pianura, il nuovo film di Francesco Sossai distribuito da Lucky Red, non è mai una cosa soltanto. Da una parte, c’è la storia dei tre protagonisti, Doriano, Carlobianchi e Giulio, rispettivamente interpretati da Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano e Filippo Scotti; dall’altra c’è la storia del territorio, di questo Veneto che sembra sempre sospeso, avvolto dal verde, perso tra le strade di provincia e le superstrade, dove tutto è vicinissimo e allo stesso tempo lontano. Sossai, che ha scritto Le città di pianura insieme ad Adriano Candiago, riesce ad alternare costantemente il punto di vista del racconto: prima stretto, poi più grande, infine trasversale, si concentra sulle dinamiche tra i personaggi, sul loro passato e su ciò che li circonda.

Il pretesto del film è semplicissimo: ci sono due amici, Doriano e Carlobianchi, che vogliono bere l’ultimo bicchiere prima di andare a dormire. E così cominciano a spostarsi, a viaggiare, a cercare il posto perfetto dove farlo. Incontrano Giulio quasi per caso, mentre lui sta partecipando alla festa di laurea di una ragazza che gli piace e alla quale non riesce a dichiararsi, e loro sono in giro a ciondolare. Non appena Doriano e Carlobianchi lo vedono, lo invitano a unirsi a loro. All’inizio Giulio è contrario, ma poi, piano piano, si lascia andare. Si inserisce perfettamente nella coppia, trasformandola in un trio.

Doriano e Carlobianchi provano a convincere Giulio a godersi la vita, a vivere l’attimo, a non perdersi nei pensieri e a non lasciarsi condizionare dalla paura e dall’ansia. Allo stesso tempo, Giulio diventa una specie di ancora di salvezza, che trascina giù Doriano e Carlobianchi e che li costringe a fare i conti con la realtà: chi sono, cosa fanno; le amicizie che hanno perso, le promesse che non sono riusciti a soddisfare. Le città di pianura cambia ancora una volta: da road movie a coming of age e da coming of age a racconto più intimo e personale, che coinvolge tutti e tre i protagonisti.

Ci sono tante citazioni e riferimenti: a Il sorpasso, per esempio, con queste corse in macchina continue e quasi al limite e con Doriano e Carlobianchi che, come il personaggio di Vittorio Gassman, invitano Giulio a divertirsi e a ridere; e a I vitelloni, per i toni, per le prese in giro, per il sottotesto più serioso e tragico che si nasconde dietro battute e risate. Sossai usa il territorio per mostrare un angolo di mondo specifico, con le sue regole e i suoi equilibri; ma lo usa pure per la sua universalità: il Triveneto può essere qualunque luogo, in qualunque istante. Le vecchie ville e gli spazi sono in pericolo per la costruzione di nuove autostrade; gli operai faticano ad arrivare alla fine del mese e provano ad arrangiarsi come possono, talvolta violando le regole e la legge; non c’è nessuna vera distanza tra gli sconosciuti: basta parlarsi, guardarsi negli occhi e ascoltarsi per un momento per rivedersi l’uno nell’altro e per riconoscere l’assoluta verità: siamo tutti soli e abbiamo tutti paura di rimanere soli.

Ci sono alcune scene, ne Le città di pianura, che ricordano i film di Wes Anderson, con questa pulizia e questa precisione nelle inquadrature; altre, invece, perse nell’enormità del Veneto, sono in grado di cogliere la profondità degli spazi, intesi sia geograficamente che umanamente, come in un film di Alice Rohrwacher. Le città di pianura, però, è innanzitutto un film di Sossai: legato al territorio, innamorato dei suoi personaggi, che sono allo stesso tempo dolcissimi e fragili, furbi e meschini, e pronto a rallentare, a prendersi una pausa, proprio per dare modo a determinate situazioni – il passato di Carlobianchi e Doriano, l’angoscia di Giulio per il futuro – di venire fuori chiaramente, senza forzature o esercizi retorici.

In poco più di un’ora e mezza, Le città di pianura sa trovare la sua voce e la sua visione, si muove prima svelto, poi più lentamente; si dilata e si contrae, e rimane sempre coerente. Con i tempi del racconto, con l’ambientazione e, in particolare, con sé stesso. Non ci sono sbavature o cortocircuiti. Ogni cosa che vediamo, anche la più piccola, anche la più superficiale, ha un senso all’interno del quadro più grande. Come l’apertura del film, con la presentazione di questo leggendario Cavalier Fadìga, interpretato da Roberto Citran, o come il ritorno costante del Genio (si chiama proprio così) interpretato da Andrea Pennacchi: brillante, visionario, amico di Carlobianchi e Doriano e per loro un assoluto punto di riferimento. La loro Stella Polare.

Insieme alla regia e alla scrittura, questo misto brillante di battute, situazioni quasi surreali e dialoghi fittissimi, ricchi di frasi a effetto e onestà, l’altro punto di forza de Le città di pianura è rappresentato sicuramente dal cast: Pierpaolo Capovilla, Sergio Romano e Filippo Scotti sono meravigliosi, tanto insieme quanto da soli. Capovilla e Romano, che sono i primi che conosciamo nel corso della storia, trovano immediatamente una loro dimensione. Sembrano nati, praticamente, per questo ruolo (vi consigliamo di recuperare il testo che Capovilla ha scritto per Rolling Stone Italia, dove racconta il suo incontro con Francesco Sossai e il motivo per cui ha accettato il ruolo di Doriano). Scotti, che arriva poco più avanti, riesce a inserirsi perfettamente, come il suo personaggio, tra Capovilla e Romano. All’inizio si affida alla profonda caratterizzazione di Giulio – introverso, schivo, interessato più a fare la cosa giusta che a essere sé stesso –; successivamente adegua il suo tono e la sua recitazione agli altri due attori. Non li insegue, attenzione. Ma li studia a fondo, proprio per non stravolgere le loro dinamiche.

Le città di pianura usa solo come una scusa, come un pretesto, il racconto più ampio. In realtà, si concentra sui suoi protagonisti, su ciò che vivono e sentono; li eleva, in un certo senso, ad archetipi narrativi, così da permettere a chiunque di ritrovarsi in ciò che provano e dicono. Sossai firma uno dei film più belli di quest’anno: un film che non si nasconde né dietro il suo apparente sarcasmo né dietro le sue premesse; un film intenso, delicato, che vuole bene ai suoi personaggi e agli attori che li interpretano, e che soprattutto non si dimentica della terra e delle persone che la abitano e che, conseguentemente, la vivono.

La fotografia di Massimiliano Kuveiller è densa, carica di colori e di spessore. Il montaggio di Paolo Cottignola non si fa mai esasperante o frenetico, eppure tiene il ritmo della storia e rispetta la visione di Sossai. E poi ci sono le musica di Krano: perfette. Vivo Film, Rai Cinema e Maze Pictures, che hanno prodotto Le città di pianura, non si sono limitate banalmente a rischiare (davanti a un film così, diciamoci la verità, il rischio è minimo); hanno saputo affidarsi a Sossai, hanno saputo aspettarlo e dargli lo spazio e il tempo di cui aveva bisogno (di nuovo: recuperate il testo di Capovilla su Rolling Stone Italia), e alla fine l’hanno sostenuto al meglio, portandolo addirittura al Festival di Cannes e alla sezione Un Certain Regard.

Le città di pianura è un film più unico che raro, di questi tempi. Per certi versi, sembra richiamare un’estetica internazionale, soprattutto del Nord Europa, e un modo di affrontare la storia lineare, senza rallentamenti eccessivi, che appartiene al cinema giapponese più recente. Le città di pianura, però, è un film italianissimo, radicato tanto nel territorio quanto in una particolare maniera di porsi e di esprimersi. E in questa sua italianità, presa come valore relativo e non assoluto, come elemento distintivo ma non determinante, riesce a essere universale. Perché non ha bisogno di scimmiottare o di riprendere nessuno per essere il film che spera, e che è in grado, di essere. Perché si appropria delle citazioni, le fa sue, le rende parte integrante del tessuto narrativo. E perché è consapevole, dalla prima all’ultima inquadratura, di ogni cosa.

Le parole, le immagini. I suoni. Le città sono isole, gli uomini sono marinai; possono viaggiare insieme o da soli, alla ricerca di un tesoro o di un posto dove riposarsi. Eppure sarà quel viaggio – lungo, breve, eterno o senza meta – ciò che li cambierà per sempre, che farà di loro persone complete. Alla fine de Le città di pianura, Carlobianchi, Doriano e Giulio sono più sé stessi e più padroni, proprio perché, conoscendosi, stando insieme, ascoltando gli uni i silenzi degli altri, hanno capito una cosa fondamentale. E cioè che la solitudine, questo stato dell’esistenza apparentemente costante, può essere tanto un’occasione quanto un limite. Dipende da noi: se accetteremo o meno di andare a bere l’ultimo bicchiere.