di Gianmaria Tammaro
Dal primo incontro con Luigi Lo Cascio alla decisione di girare il film su Peppino Impastato, e poi l’importanza della lingua, del siciliano, del lavoro con gli attori, del sapere cogliere e apprezzare la bellezza. Il rapporto tra cinema e musica, i film fatti e quelli che avrebbe voluto fare. L’influenza di Pasolini e il cambiamento del pubblico e della politica. L’intervista.

Dice Marco Tullio Giordana che la bellezza, a volte, bisogna andare a cercarsela, che c’è, che resiste, che è nell’arte. Il mondo di oggi gli sembra decisamente peggiore rispetto a quello degli anni Settanta, quando c’era una partecipazione diversa, più sentita, alla vita politica e alla cosa pubblica. Cita Pasolini, Sciascia, Moravia e Morante. I film, continua, si fanno perché c’è l’intenzione di essere visti. A nessuno piace l’insuccesso. Non sono credibili quelli che dicono di fare film per sé stessi e non per gli spettatori. Riguardando I cento passi, al cinema in questi giorni con Minerva Pictures e Filmclub Distribuzione per il suo venticinquesimo anniversario, ha riscoperto un film solido, che funziona, con una sua compattezza. E il merito, spiega, è anche degli attori.
Ricorda il primo incontro con Luigi Lo Cascio e parla del loro rapporto, di come in questi anni siano diventati amici. Giordana ha fatto i film che ha fatto perché sono quelli che è riuscito a girare; ne avrebbe fatti molto di più, confessa, e sarebbe stato volentieri un autore più prolifico. Di sé stesso non ama parlare. Preferisce non pensare a come e a quanto è cambiato. Meglio concentrarsi sugli altri. Va a teatro e al cinema per vedere soprattutto gli attori, e poi ascolta musica, si rifugia nei paesaggi e nell’abbraccio di Roma. Dice di essere fortunato ad abitare nella capitale. Perché così quella ricerca di cui parlava all’inizio, la ricerca della bellezza, è decisamente più facile. La bellezza, ripete, esiste nonostante tutto. Nonostante l’oscenità e la bruttezza.

Com’è nato I cento passi?
«Mi venne proposto da un giovane produttore, anzi giovanissimo ai tempi, Fabrizio Mosca. Aveva questa sceneggiatura, scritta da Claudio Fava e Monica Zappelli, che aveva vinto il Premio Solinas. Ci incontrammo tutti e quattro, e mi parlarono di questa storia molto avvincente. Non era una mia idea; nella revisione della sceneggiatura, però, sono intervenuto anche io. Chiesi al produttore, su consiglio di Francesco Rosi, di poter andare in Sicilia qualche mese prima delle riprese per avere una sensazione più diretta e meno mediata dalla letteratura o dal cinema».
Fino a quel momento che idea aveva della Sicilia?
«L’avevo visitata già tante volte, ma senza entrare a fondo, senza esplorarla; forse, senza nemmeno capirla. E invece quei mesi passati lì, a Cinisi, incontrando le persone, parlando con gli amici di Peppino Impastato, con i suoi famigliari, rendendomi conto del contesto, sono stati fondamentali. Perché mi hanno spinto a scegliere per il cast solo attori della zona, attori siciliani. Io sono nato a Milano; all’epoca vivevo a Roma da diversi anni, dal 1976, e non avrei mai potuto suggerire un’intonazione a qualcuno che non fosse già siciliano. Ho pensato che questo mi avrebbe aiutato, come in effetti poi è stato».
E a quel punto?
«A quel punto ne ho approfittato e ho fatto tantissimi provini per i vari ruoli. L’unico che non riuscivo a trovare, di cui non ero soddisfatto, era il protagonista. Mancava meno di un mese all’inizio delle riprese. Fu Luigi Maria Burruano, che era stato una delle prime scelte per il ruolo del padre, a indicarmi questo suo nipote; io, dico la verità, lo presi poco sul serio all’inizio».

Perché?
«Perché mi sembrava in linea con il simpatico familismo italiano. In realtà, appena vidi Luigi Lo Cascio in lontananza, prima ancora insomma di scambiarci due parole, mi sembrò proprio lui, Impastato. Ebbi questo pensiero: speriamo che sia bravo. Perché mi sembrava un regalo del destino incontrare un attore così. Poi, naturalmente, gli feci dei provini; parlai con lui, e mi resi conto della sua intelligenza sbalorditiva e della sua cultura. Anche se non aveva fatto niente al cinema prima de I cento passi, mi sentii molto tranquillo ad affidargli il ruolo del protagonista».
In che modo, secondo lei, la musicalità del siciliano e della lingua ha influenzato il racconto de I cento passi?
«Intanto mi sono reso conto che la lingua parlata conteneva delle espressioni, delle sintesi, dei lemmi, delle circollocuzioni fantastiche, capaci di esprimere dei concetti nei dialoghi in modo quasi letterario. Per esempio, mi ricordo quando il cugino americano va a trovare Felicia Impastato e si ferma davanti alla bara che contiene i resti del figlio; da sceneggiatura, avrebbe dovuto dire qualcosa come: Peppino, uomo imprevedibile. A quel punto Lucia Sardo, che interpreta Felicia ne I cento passi, mi ha preso da parte e mi ha spiegato che in Sicilia hanno un’espressione: sangue pazzo. E quindi, alla fine, il cugino americano dice: Peppino, sangue pazzo. E in quel “sangue pazzo” c’era tutto. La ribellione, la follia, il rapporto con la famiglia. Un’espressione così bella che poi l’ho riutilizzata per il mio film su Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Ecco, questo piccolo esempio per far capire quante rivelazioni ho avuto parlando con le persone e con gli interpreti. Mi sono lasciato guidare. Io sapevo quello che volevo; ma gli attori, tutti straordinari, sia quelli di grande esperienza come Burruano che quelli che non avevano mai recitato, presi dalla strada secondo la tradizione neorealista, mi hanno insegnato moltissimo».
A volte gli attori sono anche autori, diceva Orson Welles.
«Certo. E Orson Welles, che era anche un attore magnifico, poteva ben dirlo. L’attore porta sempre qualcosa di sé nel film se non gli si impone di recitare a macchinetta, una cosa che lo rende inerte e completamente inutile, perché non passa niente. Se un attore riesce a incarnare un personaggio, a farlo suo e a vivere la vita che si appresta a raccontare, allora è un autore a pieno titolo».

Partendo da questa consapevolezza, allora le chiedo: è difficile capire quanto spazio e fiducia dare a un attore?
«Devo dire la verità: non ho mai avuto questo tipo problema, fin dal mio primo film, Maledetti vi amerò, dove ho lavorato con un mostro sacro come Flavio Bucci. Non so neanche, visto che non avevo nessuna esperienza, come abbia fatto a guidarlo. Gli attori si sono sempre sentiti in mani amorevoli con me. Non ho mai avuto veramente dei contrasti. Ogni volta che ho fatto un film, ho sempre avuto le idee abbastanza chiare su quello che una determinata scena doveva significare. Il come, poi, dipendeva molto anche dal corpo e dalla voce dell’attore. Perché l’attore lo sa trasformare in cosa vera anziché in parole o lettere. Io ho sempre usato questo sistema».
Dove l’ha imparato?
«Quando ero ragazzo, andavo di nascosto a vedere le prove di Strehler al Piccolo di Milano. Mi mettevo in platea, al buio, e vedevo come faceva con gli attori. Dava una grandissima impronta, recitando in prima persona le varie parti; poi, però, gli attori venivano lasciati liberi. E io ho sempre pensato che bisognasse fare così. Non mi sono mai sentito minacciato dall’idea di un attore su come fare un personaggio. Ovviamente è importante essere d’accordo su che sensazione restituire. Non mi sono mai dovuto pentire di questo metodo. E a dirle la verità, non saprei quale altro usare. A me non piace andare sui set dei film; so che sono una grande scocciatura, le visite. Appena arriva qualcuno, succede sempre qualcosa e tu ti sei esposto a una brutta figura. Quindi non so nemmeno dirle come fanno gli altri».
I registi possono essere amici degli attori? O un legame troppo forte, troppo vicino, può diventare un problema?
«Non credo che sia un problema se, da entrambe le parti, c’è un’amicizia sincera, se c’è una vera stima. In quel caso, l’amicizia diventa un vantaggio. Perché l’amicizia significa esperienze comuni, significa visione condivisa; significa linguaggi sperimentati. No, no. Io trovo che è bellissimo essere amico degli attori. Provo sempre una sorta di riconoscenza per loro. Quando vado al cinema, guardo gli attori. E vado molto spesso a teatro proprio per scoprirne di nuovi. Se i film si potessero fare con l’intelligenza artificiale, quello che verrebbe fuori non vibrerebbe. Pensi ai MIDI, che simulano uno strumento musicale. Se uno suona il flauto, la chitarra o il piano è molto diverso dai MIDI, da un’esecuzione elettromeccanica di una serie di note. Perché c’è l’impronta della persona e della sua esperienza».

Che tipo di rapporto si è creato con Luigi Lo Cascio?
«Per l’età, potrei dire quasi figliale. Ma quando si cresce si diventa tutti fratelli. Lo ammiro molto, non solo come attore, ma anche come regista, i suoi spettacoli sono sempre molto intelligenti e pensati, e come scrittore. Mi sembra incredibile che ci conosciamo da così tanto tempo. L’ho visto diventare padre e ho visto i suoi figli diventare grandi. Un mese fa, hanno recuperato I cento passi. Io li guardavo, tutti e tre, anzi tutti e quattro, contando anche Desideria, la loro mamma, e pensavo: è incredibile cos’è successo in tutti questi anni. Però devo dire anche che Lo Cascio non mi sembra cambiato rispetto al ragazzo che ho conosciuto venticinque anni fa».
No?
«No, mi pare che abbia conservato una certa innocenza e una certa verginità; sicuramente, una certa attitudine a provare. Lo considero un grande artista. È piacere lavorare con lui».
Lei, invece, quanto e come è cambiato in questi anni?
«Ah, non lo saprei dire. Io cerco di limitare l’osservazione di me stesso. Non mi studio. Mi sembra di essere uguale. Ma poi mi ricordo che sono passati tanti anni e ci penso: cosa sono diventato... Ma non me lo voglio chiedere, no, anche perché non mi voglio rispondere».

Ribalto la domanda: quanto crede che siano cambiati il mondo intorno a lei e il cinema italiano?
«Il mondo mi sembra molto peggiorato, soprattutto per l’arroganza e l’ostentazione dei mascalzoni. Due cose, forse, generate dall’impunità e dall’apparente incapacità individuale di darsi un limite. C’è una sorta di indecenza collettiva. Il cinema, ovviamente, risente di questo deterioramento. Anche se poi ci sono delle eccezioni sbalorditive, grazie a cui uno torna a innamorarsi della vita, del cinema stesso e dell’arte. Anzi, l’unica cosa che forse ci può dare la salvezza è proprio l’arte. Non solo il cinema: la pittura, la poesia, la letteratura, la danza, la musica. Penso che ognuno possa trovare la sua oasi. Detesto fare l’apocalittico, però il mondo mi sembra in uno dei suoi periodi peggiori».
Quando è stata l’ultima volta che le è capitato di provare questo amore verso l’arte?
«Io sento molta musica, perché l’ho studiata da ragazzo. Ogni volta che la sento, che l’ascolto, che vado a un concerto, mi trovo in quello stato di esaltazione che ti può dare il bello. Ma me lo possono dare la natura, il paesaggio, la campagna e i viaggi; me lo possono dare anche le persone che si incontrano. È come se io vedessi una specie di atmosfera negativa che circonda delle persone che invece sono amorevoli e preziosissime. So che poi la salvezza viene da loro. Penso che tutto sia passeggero: tanto la felicità quanto l’infelicità».
Che effetto le ha fatto rivedere un mese fa, insieme a Lo Cascio e alla sua famiglia, I cento passi? Come lo ha trovato?
«In realtà, lo avevo già rivisto insieme a Roberto Forza, il direttore della fotografia, per seguire da vicino il restauro. Restauro che, tra l’altro, è stata un’occasione per rendere più precise delle cose, non per modificarlo. Abbiamo provato a rispettare quello che eravamo allora. Rivedendo il film, ho pensato che fosse un’opera compatta, un’opera – e mi dispiace usare questa parola – riuscita, dove tutto aveva un equilibrio: il racconto, il ritmo; soprattutto quegli attori così bravi, così in parte e così naturali. Non ho avuto minimamente la sensazione dell’invecchiamento».

Prima mi ha detto che nella musica finisce sempre per trovare un buon motivo per innamorarsi nuovamente dell’arte. Crede che il cinema tenda verso la musica?
«Io ho sempre pensato che la musica abbia un grado di parentela con il cinema molto più vicino e prossimo del teatro. Per intenderci: se la musica è la sorella del cinema, il teatro è suo cugino. Cinema e teatro usano gli stessi strumenti: la luce, gli attori, il tempo. Però mi sembra un grado di parentela più lontano rispetto a quello con la musica. Qualcosa di più dionisiaco. Che nel cinema c’è, si percepisce, però è come occultato dal significato stesso del film, dal racconto, dal fatto che stai mettendo in scena una storia. Questo elemento dionisiaco è più interstiziale, se vuole. Ma mi pare comunque che ci sia una vicinanza fortissima con la musica».
Quest’anno è anche il cinquantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. E per lei Pier Paolo Pasolini è sempre stato una figura di riferimento.
«È stato restaurato anche Pasolini, un delitto italiano; quello però è stato supervisionato dalla Cineteca di Bologna, io l’ho visto per un controllo finale e il lavoro che è stato fatto mi è sembrato assolutamente impeccabile. Ecco, anche quel film mi ha sorpreso per la sua compattezza. È un film corale e ha qualcosa, secondo me, vicino a I cento passi. Quando ero un ragazzo, Pasolini era vivo. E io seguivo i suoi film e i suoi interventi pubblici. Per me è stato una figura estremamente importante. Ma devo dire che all’epoca ce n’erano diverse: Sciascia, per dirne un altro, ma pure Moravia, Calvino, la Ginzburg, la Morante; tutte personalità che si spendevano nella società italiana degli anni Settanta, che con tutti i suoi contrasti era migliore di quella di adesso. Anche la classe dirigente era migliore».
Perché, secondo lei?
«In tutti sembrava esserci un elemento di interesse e di responsabilità verso il proprio paese. Magari declinato in modo differente, non nello stesso modo. Però era molto forte. E oggi, onestamente, mi sembra quasi che questo elemento manchi».

Gli intellettuali contemporanei come stanno?
«Come sta il resto del paese. Non ci sono più quelle figure come le personalità che ho citato prima. Mi sembrano tutti più accucciati nel proprio destino individuale, che non è mai una buona cosa. Però non voglio nemmeno generalizzare. Ognuno fa le cose che sente, che crede. Non penso che sia morto il bisogno di farsi carico del proprio paese. Forse mancano i luoghi dove poterlo fare. Quelle persone che citavo prima scrivevano sui giornali, venivano costantemente ospitate dai quotidiani. Oggi non so quanto spazio ci sia per una cosa del genere; e poi oggi mi sembra che si leggano molto meno i giornali».
E Internet?
«La rete non mi pare il luogo della comunicazione; la rete è il luogo della formazione di alcuni slogan molto semplicistici ed elementari. Non è un posto dove poter esprimere chiaramente qualcosa, soprattutto vista la gran massa di quello che viene riversato di continuo. Ovviamente ci sono delle eccezioni anche qui; se uno vuole, le trova. Ma, ecco, deve andarsele a cercare con molta ostinazione».
Il cinema può e deve essere politico?
«Il cinema deve essere una testimonianza del suo tempo e quindi è inevitabilmente politico anche quando finge di non occuparsene, anche quando non vuole occuparsene; anche quando lo allontana da sé con l’aria di essersi macchiato di qualcosa. Lo è a prescindere. Come il gesto della comunicazione. Come il parlare. È una forma di alienazione, perché qualcosa si stacca da noi; però allo stesso tempo il cinema è un luogo di incontro con gli altri. Non so se può o se deve essere politico; so che lo è per forza di cose, che lo voglia o meno. Negli anni Settanta se ne parlava molto, perché cominciava la fortuna di film scollacciati, banali, che la gente andava a vedere. E questi successi venivano usati come clave contro certi autori. Penso ad Antonioni: quando avevo vent’anni era un idolo, quando avevo trent’anni veniva visto con sospetto dal cinema più commerciale. Talvolta quei film più consapevoli – non voglio dire impegnati; “impegnati” è una parola che allontana – di essere un gesto politico hanno fortuna; altre volte, non ne hanno nessuna. Sono anche mode culturali».

Come si riconosce la storia giusta, quella a cui dedicarsi completamente per un pezzo consistente della propria vita?
«Io ho fatto pochi film non per snobismo, ma perché non sono riuscito a farli. Non sempre è andato tutto bene, e non sempre i progetti sono decollati. Ne avrei fatti volentieri molto di più e sarei stato decisamente più prolifico. Ho fatto questi film perché questi sono i film che sono riuscito a fare, per i quali ho trovato dei complici, dai produttori agli attori. Altre volte non è andata ugualmente bene. A me piace raccontare storie; non parto dall’idea di un tema specifico. Sono le storie, le vicende, che mi colpiscono e che suscitano il mio interesse e la mia passione. Non è mai il tema, o se preferisce la nobile intenzione, a muovermi. Anzi, rifuggo un po’ da quel tipo di investitura morale. Mi sembra sempre un po’ ipocrita. Perché poi il cinema è un’arte popolare; la si fa per avere i grandi numeri. Anche l’autore più raffinato vuole i grandi numeri. Non ho mai creduto che qualcuno facesse un film per godere dell’insuccesso. Nessuno gode dell’insuccesso».
Il pubblico, secondo lei, com’è cambiato?
«Penso che il pubblico sia sommerso dall’offerta e dalla possibilità di vedere e consumare cinema dovunque. Un po’ come nella cucina. Una volta c’erano i ristoranti, i bistrot, i bar; ora ci sono le paninerie, le pizzerie a ogni angolo… Se ci pensa, hanno molte cose in comune il cinema e la cucina. Se ne parla molto, tutti vogliono essere un po’ cuochi o un po’ cineasti. Si assomigliano in questo, il cibo e il cinema: sono indispensabili. E dico cinema per dire l’arte in generale. Il pubblico è cambiato perché questa offerta smisurata può anche paralizzarti; non prendi nessuna decisione».
Una volta era diverso?
«Una volta si vedevano i film nelle sale, ce n’erano tante, ce n’erano alcune anche specializzate, come i cineclub e le cineteche. Quando mi sono trasferito a Roma, a metà degli anni Settanta, erano ovunque. E la stessa cosa valeva per Milano. L’offerta era molto ricca ed è stata fondamentale per me. Poi queste sale sono cadute in declino, ed è stata più possente l’offerta mainstream. Con le piattaforme, sono tornati tanti vecchi film. Mi pare, insomma, che ci sia un doppio elemento. È come se l’enorme quantità di cinema ti costringesse a un lavoro di scelta, di ricerca, molto più accurato. Secondo me è un bene che ci sia questa offerta. Però è un male per chi non vuole scegliere, per chi subisce. Ma forse questo è sempre successo».

Dove resiste la bellezza?
«Nel cinema, per quanto banale possa suonare, c’è la bellezza quando ci sono film belli. Io la trovo soprattutto nel paesaggio, nelle rovine e nell’architettura. E in questo senso vivere a Roma, ma più in generale in Italia, è un grande privilegio. La bellezza convive con l’oscenità. E anche lì devi un po’ cercartela, devi scegliertela. Devi decidere su cosa posare il tuo sguardo. Ma la bellezza esiste, anche se minacciata dalla bruttezza».
La foto di Marco Tullio Giordana è stata scattata da Angelo Turetta sul set de La vita accanto. Le altre immagini vengono da I cento passi, in questi giorni in sala con Minerva Pictures e Filmclub Distribuzione in versione restaurata in 4K.