di Gianmaria Tammaro
Dalla paura per l’uscita al cinema del suo primo film, La vita da grandi, alla regista che alla fine sente di essere diventata. E poi i primi cortometraggi, il provino in Accademia, l’importanza delle storie e il peso che hanno all’interno della sua vita. La voglia di fare, di sperimentare e di mettersi alla prova. Il rapporto con Matilda De Angelis sul set, il colpo di fulmine con il teatro negli Stati Uniti. E il senso della responsabilità come artista e come persona. L’intervista.
Greta Scarano ha sempre voluto fare la regista. Anche quando andava al liceo e girava i suoi primi corti con le amiche e le riprendeva mentre correvano via, al mercato di Testaccio, inseguite da quello che sarebbe dovuto essere un serial killer. O quando, in Accademia, fu l’unica ragazza a fare il provino per il corso di regia. Le piacevano Dario Argento, Quentin Tarantino e Stanley Kubrick. Poi, crescendo, ha imparato ad amare Ettore Scola e a conoscere Noah Baumbach.
Il suo primo film, La vita da grandi, è un film maturo, consapevole ed estremamente fedele alla sua visione e al suo punto di vista: l’ha costruito negli anni, con calma e determinazione. E quando l’ha finito, si è sentita avvolta da una stanchezza consolante, prossima alla soddisfazione. Prima dell’uscita al cinema Greta ha avuto paura. Un misto di tensione e di ansia, mi dice. Ma quando ha incontrato il suo pubblico, quando ha potuto parlare con le persone, si è sentita felice. E, in un certo senso, vista. Qualcuno si è commosso, mentre qualcun altro, invece, ne voleva ancora. Ora pensa al suo prossimo film e si ripete la sua grande verità: lei, delle storie, ha bisogno.
Prima dell’uscita in sala de La vita da grandi, hai detto di aver avuto paura.
«Tantissima, sì».
Quando è passata, se è passata, questa paura?
«Quando il film è uscito. Ma soprattutto quando ho avuto la fortuna di poter incontrare gli spettatori. Il film, per carità, può piacere come può non piacere. E non credo che sia giusto, o sano, avere la pretesa di mettere tutti d’accordo. Anzi, sinceramente non mi interessa nemmeno farlo».
Che cosa ti interessa?
«Poter avere uno scambio con le persone. E anche se questo è, in un certo senso, un film commerciale, rivolto anche alle famiglie, mi è capitato varie volte di parlare con spettatori che si erano profondamente commossi: spettatori che non avevano mai avuto a che fare con l’autismo o, al contrario, spettatori che lo conoscevano molto bene».
Che consistenza aveva questa commozione?
«A volte, credimi, era fatta di silenzio. Le persone erano così commosse da non riuscire a parlarmi».
In che cosa si è trasformata la paura dell’esordio?
«In una sorta di appagamento. Mi sono placata quando ho capito di essere riuscita a coinvolgere le persone e a mettere in scena esattamente quello che avevo in mente. E questo al di là dei numeri, che sono importanti, certo, e che riflettono un’altra realtà con cui è fondamentale confrontarsi».
Prima ancora di fare l’attrice, tu hai sempre voluto fare la regista. Anche in Accademia, quando hai fatto il tuo provino, hai chiesto di iscriverti a regia. E la commissione, in un certo senso, non se lo aspettava.
«Diciamo che avevano dato un po’ per scontato che io fossi andata lì per fare il provino da attrice. E invece io volevo sostenere il provino da regista. Mi ero preparata per tutta l’estate, con una roba allucinante. Se ci ripenso oggi, mi chiedo perché».
Che cosa avevi preparato?
«Woyzeck, uno spettacolo di Büchner, un drammaturgo tedesco. Lo avevo conosciuto durante il mio periodo negli Stati Uniti, quando avevo preso parte a un altro spettacolo, sempre di Büchner, in cui facevo la protagonista. Si chiamava The Visit. E in quel momento mi sono completamente innamorata di lui».
E com’è andata?
«Un po’ ingenuamente, me la sono presa. Perché mi ero impegnata così tanto, e quasi non volevano prendermi in considerazione come aspirante regista. Poi mi hanno fatto una serie di domande, alle quali probabilmente non ho saputo rispondere, e non mi hanno presa. Penso di essere stata l’unica ragazza di 19 anni, quella sessione, a provare come regista. Diciamo che non era una cosa così consueta. Però voglio specificare una cosa».
Dimmi.
«Fare l’attrice per me è come respirare. Dirigere, invece, mi ha permesso di uscire dalla mia comfort zone. Non è mai stato un ripiego, la recitazione. A 7 anni facevo l’omino di latta ne Il Mago di Oz. Recitare e dirigere sono facce della stessa medaglia, anche se sono due mestieri estremamente lontani tra di loro. Entrambi, poi, nascono dalla stessa cosa: la voglia che ho di raccontare storie».
Ultimamente ti è capitato di riguardare uno dei tuoi primi cortometraggi ispirati a Dario Argento?
«Guarda, in realtà, sì. (ride, ndr) E non sono nemmeno montati del tutto. Ho delle scene tatuate nel cervello, come se li avessi girati ieri».
Che cosa ti ricordi?
«Mi ricordo questi dettagli delle scarpe e dei tacchi delle mie amiche, che si prestavano come attrici, mentre correvano nel mercato di Testaccio. E poi mi ricordo questa scena in cui erano tutte stese sul letto e si passavano, una dopo l’altra, la camera: tenevano le teste vicine».
Credi di essere diventata la regista che speravi di diventare?
«All’epoca, quando giravo i miei corti, pensavo che sarei diventata Stanley Kubrick. Avevo in mente tutto un altro percorso. Guardavo molto a Tarantino e a Dario Argento. Poi, crescendo, ho cambiato completamente punti di riferimento: Baumbach, Scola, Jenkins. Quando avevo vent’anni, non li conoscevo minimamente. Quindi forse no, non sono diventata quella che volevo diventare».
Però?
«Però sono diventata la regista che, con il tempo, ho capito di poter essere. Ti faccio un esempio. D’istinto, anche come attrice, amo molto la macchina a mano. Ne La vita da grandi, invece, la uso pochissimo. E questo perché ho provato ad ascoltare la storia e le sue necessità. Volevo raccontare un mondo con le sue regole e i suoi equilibri».
Chi è stata la prima persona a cui hai fatto vedere La vita da grandi?
«Forse il primo montato l’ho fatto vedere a Sydney (Sibilia, regista e marito di Greta Scarano, ndr). Ed era un montato molto consistente. Ho girato il film esattamente come lo volevo vedere. Non volevo snaturarlo o riscriverlo al montaggio. Ho tagliato due scene, fine. Nient’altro. Il film è sempre stato molto dritto».
Che cosa ti ha detto Sydney quando l’ha visto?
«Che era molto bello. Sydney non è uno che si sbilancia, e durante la lavorazione ha preferito farsi indietro per lasciarmi tutto lo spazio di cui avevo bisogno. E di questo gli sono grata. Non ha letto nemmeno la sceneggiatura. L’ha fatto solo quando l’ho consegnata. La sua fiducia mi ha dato molta sicurezza. E così, quando ha visto il film, l’ha visto con lucidità. Sapere che gli piaceva, che per lui andava già bene così, con il primo montato, mi ha fatto sentire sollevata».
Come si riconosce il momento in cui un film è finito?
«Nonostante La vita da grandi fosse praticamente già pronto, con la sua linearità, io ho provato a cambiare, ad aggiustare delle cose, e mi sono convinta a provare delle versioni alternative dopo averne parlato con alcune persone di cui mi fidavo. Ho capito che era finito dopo tantissimo tempo in cui ci giravo un po’ intorno. E ho fatto la stessa cosa anche con la sceneggiatura: mandavo in continuazione nuove versioni, ma con modifiche minime, su una o due battute. Forse, sai, un film è finito quando riconosci di essere stanca, di aver tentato di tutto».
E che forma ha questa stanchezza?
«Quella del sollievo, per certi versi. Sono due sensazioni che si somigliano molto».
Che film volevi fare?
«Un film veloce. La vita da grandi è il mio primo lungometraggio, e volevo rispettare – credimi – sia le persone che lo avrebbero visto sia poi quelle che mi avrebbero affiancato nella lavorazione. Volevo una certa durata, e non volevo andare oltre. Avrei potuto essere più indulgente con me stessa».
E invece?
«Invece ho provato a essere rigorosa. Quando facevamo anche un po’ di ritardo, provavo immediatamente a rimediare. Vista a posteriori, lo so, anche questa è una cosa piuttosto ingenua. Però ci tenevo».
Perché?
«Perché volevo fare un film con una sua consistenza e una sua tensione. Non è un thriller, per carità. Però volevo mantenere alta l’attenzione delle persone. E quando qualcuno mi ha detto che avrebbe voluto un film più lungo, mi ha fatto felice. Perché non cercavo di soddisfare completamente lo spettatore, ma di incuriosirlo, di coinvolgerlo fino a renderlo completamente partecipe».
Hai pensato immediatamente a Matilda De Angelis come protagonista?
«Era nei nostri pensieri – miei e di Sofia Assirelli e Tieta Madia – mentre scrivevamo la sceneggiatura de La vita da grandi. Questo per diverse ragioni. È una delle attrici più talentuose del nostro cinema, e quindi speravo davvero di averla a bordo. Sydney mi aveva consigliato di non aspettarmi niente, di mandarle la sceneggiatura e di considerare i tanti impegni che ha. E invece due giorni dopo Matilda mi ha risposto dicendomi che c’era, che voleva farlo. E glielo avevo anticipato anche io, sai. Le avevo detto di non farsi problemi a rifiutare. Che non doveva dire per forza di sì perché ci conosciamo. E forse questo l’ha messa a suo agio».
Che tipo di rapporto avete stretto sul set?
«Ho provato a comportarmi con lei nello stesso modo in cui vorrei che i registi si comportassero con me quando recito. Matilda è molto meno rompicazzo di me. (ride, ndr) Si è messa immediatamente a disposizione. Io ho sempre da ridire. Forse, a volte in un modo un po’ diretto, che può non piacere a tutti. Matilda non è invadente, non cerca di mettersi di traverso; si è completamente affidata. Ho capito che siamo diverse. Proprio come approccio. In altre cose, invece, siamo molto simili. Ed è un’affinità che ho intercettato subito, fin dal primo momento in cui l’ho vista anni fa in Veloce come il vento».
Che cosa avete in comune?
«L’ironia e un certo modo di vedere il mondo e quello che ci circonda. Lei dice sempre questa frase molto bella: sulle cose tristi è facile essere d’accordo; è difficile trovare qualcuno con cui ridere. E quando succede, dice, è un regalo. E ha ragione».
C’è qualcosa di autobiografico in questo film? Penso, per esempio, alla citazione di Un posto al sole, che è stata una delle prime cose che hai fatto.
«C’è tantissimo di me, non te lo sei immaginato. E c’è tantissimo anche delle due sceneggiatrice che hanno lavorato con me. Loro, per esempio, erano due fuorisede. E ogni volta che tornavano a casa, si sentivano di nuovo nel passato. Io non sono mai stata l’attrice famosa a casa mia. Mi ricordo certe sere in cui arrivavo vestita bene, truccata. E i miei nonni erano in ciabatte sul divano. (ride, ndr) Però Un posto al sole l’ho inserito perché Damiano Tercon, a cui il personaggio di Yuri Tuci si ispira, è un appassionato di Beautiful. E non potendo avere quello, ho scelto Un posto al sole. Come Margherita Tercon, la sorella di Damiano, anche io ho sempre avuto un’aspirazione: lei voleva fare la comica; io la regista. Entrambe abbiamo dovuto fare i conti con le nostre paure».
Che paure hai affrontato con questo film?
«Ho dovuto prendere delle scelte; scelte, a volte, difficili. E poi ho dovuto fare delle rinunce. Avevo bisogno di una storia come questa, una storia in cui impegnarmi al massimo. E avevo bisogno di circondarmi di persone di cui potermi fidare. Fare un film richiede tanto tempo, e non potevo passare questo tempo con persone che non conoscevo».
Se hai cominciato a suonare la batteria, hai detto, è stato per tua nonna materna.
«Mia nonna materna era ciociara, mentre la famiglia di mio padre era irpina. E quindi noi passavamo le vacanze in quei paesini sperduti, dove i ragazzi suonano tantissimo».
E invece la pulce nell’orecchio per la regia chi te l’ha messa?
«Uno dei miei compagni di classe al liceo, Germano. È uno dei miei più cari amici. Io lo avvicinai alla musica, visto che ascoltavo tantissime cose già a 14 anni; lui, invece, mi avvicinò al cinema. A me piaceva, per carità. Ma così giovane non sapevo un sacco di cose. E lui mi fece vedere tantissimi horror».
Per esempio?
«Per esempio Cannibal Holocaust. Maledetto (ride, ndr). Quindi è stato grazie a lui, a Germano, se ho fatto i miei primi passi in questa direzione. Lui ora fa l’aiuto regista. E non ci siamo mai persi di vista».
Quanto senti di essere cambiata rispetto al periodo in cui, giovanissima, frequentavi i corsi di recitazione del famigerato Leonida?
«Madonna, tantissimo! (ride, ndr) Tantissimo per alcune cose, mentre per altre sono rimasta la stessa. Oggi ho la consapevolezza di avere qualcosa da dire. Quando ero più piccola, ero più istintiva. E questo mi dava poca sicurezza. Per altri aspetti, però, ero più decisa».
Fare un primo film è un po’ come diventare genitori?
«Il figlio ancora non c’è, non fisicamente. Nascerà a breve. (ride, ndr) Diciamo che sono due esperienze diverse, e non conosco ancora l’impegno effettivo che richiede essere genitori. Però capisco chi avvicina queste due cose. L’uscita del primo film è un po’ come lasciar andare il proprio figlio, forse. Il legame che si crea con un film può essere viscerale. Ne La vita da grandi, ci sono io. Te lo dicevo. C’è la mia vita. E c’è la mia famiglia – il cane che si vede, per dirti, è il cane di mia madre».
Che solitudine è la solitudine del regista?
«Io conosco molto di più la solitudine dell’attrice. Come regista, non mi sono mai sentita sola. Sono stata affiancata da altre persone. C’era sempre qualcuno pronto ad ascoltarmi. Dai miei produttori, Matteo Rovere e Margherita Murolo, con cui sono in simbiosi, alle sceneggiatrici. Da attrice questa cosa non c’è. Forse la solitudine della regista arriva la sera, quando vai a dormire e ti cominci a fare domande sul giorno dopo. E quell’angoscia, quell'ansia, appartengono unicamente a te. E devi imparare a gestirle».
E invece la responsabilità del regista che responsabilità è?
«La responsabilità è roba mia. Faccio sempre tutto, e mi carico di ogni cosa. Anche quando non devo. E spesso questo atteggiamento mi si ritorce contro. Perché qualcuno se ne approfitta. Forse, questo mio senso di responsabilità è quasi un difetto. Ma è veramente difficile che io dica di no. Per La vita da grandi, mi sono sentita responsabile anche per lo stato d’animo delle persone, di quello che potevano pensare. E questa è una cazzata, è troppo. Le persone fanno ciò che fanno anche per sé stesse, non per forza per gli altri. Non ci si può caricare così. In qualche modo, se vuoi, fare la regista mi aiuta».
Perché?
«Perché a un certo punto devi delegare. E io sono stata così fortunata da trovare un gruppo di persone pronte ad ascoltarmi».
E ora?
«E chi lo sa. Intanto ho fatto il nuovo film di Gianni Di Gregorio come attrice e sono contentissima: sono sempre stata una sua fan».
La voglia di raccontare storie passa mai?
«Per me no. Le cerco in continuazione, le storie. Sono anni che lo faccio, e sono anni che le raccolgo, che le tengo per me, che le metto da parte. E forse ho già trovato quella per il secondo film. Vediamo. La verità è che io, delle storie, ho bisogno. E poi un’altra cosa».
Dimmi.
«Io, senza storie, non riesco a darmi pace».
Illustrazione di copertina di Michele Peroncini.