di Gianmaria Tammaro
Éiru è stato selezionato nella shortlist degli Oscar dedicata al “miglior cortometraggio animato”. In questa intervista, Ferrari parla del suo lavoro, dell’incontro con Cartoon Saloon, uno degli studi più importanti al mondo, e dell’esperienza di dirigere il suo primo cortometraggio. E poi parla dello stato dell’animazione, delle mille difficoltà che produrre un film comporta e anche dell’Italia.

Giovanna Ferrari vive in Irlanda dal 2015. Precedentemente ha lavorato in Francia per una decina di anni, occupandosi di storyboard e animazione soprattutto su lungometraggi. Ha cominciato a collaborare con Cartoon Saloon durante lo sviluppo di Song of the Sea, il film di Tomm Moore. È diventata head of story, un ruolo estremamente vicino a quello della regia. Éiru, prodotto da Cartoon Saloon, è il suo primo cortometraggio. Pochi giorni fa, quando l’Academy ha annunciato le prime shortlist, Éiru era tra i titoli selezionati per la categoria dedicata al “miglior cortometraggio animato”. La storia di Ferrari assomiglia alla storia di molti animatori e disegnatori che se ne sono andati dall’Italia in un periodo in cui la politica ha messo a dura prova il lavoro artistico. Éiru, racconta, è stato un banco di prova. Le è servito per capire se la regia facesse effettivamente per lei.
I cortometraggi, spiega, sono un punto di ingresso importante. In questo momento, mentre è alle prese con la promozione e la campagna per gli Oscar, sta scrivendo anche due storie: due possibili film che le piacerebbe dirigere. In passato, quando era in Francia, Ferrari ha lavorato a lungometraggi come Peurs du Noir e Zarafa. In Irlanda, a Cartoon Saloon, ha trovato una casa. Le piace lo stile dello studio, le piacciono le idee e l’approccio; le piace soprattutto il modo in cui, nonostante i budget contenuti, nonostante la crisi del settore, è stato trovato un equilibrio. Cartoon Saloon, dice, è come una grande famiglia.

Come hai reagito quando hai saputo della presenza di Éiru nella shortlist degli Oscar per il miglior cortometraggio animato?
«È stata una cosa veramente meravigliosa, e già questo rappresenta un risultato straordinario. Siamo tutti molto felici e orgogliosi, ovviamente. Adesso speriamo per il 22 gennaio, quando verranno annunciate le nomination. Quello sarà un giorno ancora più intenso».
Quando hai cominciato a lavorare per Cartoon Saloon?
«Diversi anni fa, in realtà. Tra il 2013 e il 2014, durante la lavorazione di Song of the Sea. Mi sono trasferita in Irlanda un anno dopo, nel 2015. Ho seguito tutti i loro progetti da allora».
Che tipo di ambiente è quello di Cartoon Saloon?
«È una realtà molto bella, abbastanza piccola. Siamo un po’ come una famiglia. Ci conosciamo tutti. I capi sono alla mano, e quando mi sono trasferita mi hanno dato un aiuto importante per ambientarmi: quando sono arrivata in Irlanda ero da sola e avevo una bimba piccola. Sono stati generosi. Cartoon Saloon tiene molto ai suoi artisti. Stando qui, ho imparato diverse cose. Non ci sono divisioni interne. C’è sempre un grande ascolto. E poi c’è una grande attenzione per l’ambiente, e c’è un rispetto profondo per le minoranze e per le donne».

Come sei entrata in contatto con loro?
«All’epoca mi trovavo in Francia; lavoravo già nell’animazione, mi occupavo di lungometraggi internazionali. Mi è capitato di collaborare anche con Lorenzo Mattotti. Quando ho saputo che Cartoon Saloon stava sviluppando un nuovo film, ho fatto domanda e, come ti dicevo, sono stata presa per Song of the Sea. Ho lavorato dal Lussemburgo, in quell’occasione. E mi sono trovata molto bene. Avevo fatto animazioni che mi piacevano veramente tanto, e anche loro erano contenti. E così, quando hanno cominciato a lavorare a The Breadwinner, il film diretto da Nora Twomey, mi hanno chiesto se volevo trasferirmi in Irlanda per occuparmi sia degli storyboard che dell’animazione. E io ho deciso di andarci».
Perché?
«Intanto per il film: mi interessava molto il tema. E poi perché, per la prima volta, ho avuto la possibilità di lavorare con una regista donna. Ed è stata una cosa bella, avere un mentore che mi somigliasse. Siamo diventate amiche, io e Nora».
Nora Twomey è anche la produttrice di Éiru.
«Sì, è la produttrice di Éiru. Ma in realtà lei è la produttrice di tutti i progetti, visto che è una dei fondatori e dei CEO di Cartoon Saloon. È stata candidata anche agli Oscar».

Come nasce Éiru?
«Io volevo fare una regia. Lavoro da anni come head of story, che è un ruolo molto vicino a quello dei registi. Ma desideravo scrivere la mia storia e dirigere il mio film. Per fortuna c’è stata anche la possibilità di produrlo. Sai, i cortometraggi costano molti soldi e difficilmente ti permettono di guadagnare. Quindi devi aspettare prima di poterli sviluppare. Serve il momento giusto. I cortometraggi rappresentano un’ottima formazione per i registi, e le persone possono capire se la regia è qualcosa che fa per loro. È estremamente rischioso partire con un lungometraggio. Un corto è l’ingresso naturale, diciamo così, al ruolo di regista. Grazie al ritardo di un altro cortometraggio, abbiamo potuto spostare la squadra su Éiru. Altri studi avrebbero licenziato il personale in eccesso. Cartoon Saloon, invece, non farebbe mai una cosa del genere».
Era da molto che pensavi a questa storia?
«Ho scritto Éiru sull’onda di una riflessione che avevo fatto subito dopo l’invasione dell’Ucraina. In quel momento, mi sentivo molto preoccupata. Ma ero anche consapevole del fatto che l’altro, chi è diverso, chi viene da fuori, viene spesso additato come nemico dalla politica per avere una scusa e non concentrarsi sui veri problemi. Come, per esempio, il cambiamento climatico. Éiru ha molti livelli di lettura e affronta diversi temi. Parla della guerra, della divisione che si crea tra le persone e di un futuro in bilico, e poi anche della condizione delle donne. Recentemente, in Irlanda c’è stato un dibattito molto acceso sulle donne, soprattutto dopo le indagini sulla Chiesa cattolica e sul modo in cui ha trattato le madri e i figli. Tutte queste cose insieme hanno portato alla nascita di Éiru».
In Irlanda, tra l’altro, c’è un sostegno importante per l’audiovisivo.
«Decisamente. C’è molto più interesse e c’è molto più rispetto. È una cosa che ha radici nel passato dell’Irlanda, che è sempre stata profondamente legata allo storytelling. C’è una straordinaria tradizione orale. Il momento in cui le persone si ritrovano e si confrontano ha avuto un ruolo estremamente importante nella storia del paese. È da qui che è nato lo sviluppo delle arti. In Irlanda hanno iniziato a scrivere relativamente tardi rispetto al resto dell’Europa. Proprio per la loro tradizione orale. Sono stati i cristiani a costringere gli irlandesi a riportare per iscritto ogni cosa. Chi racconta le storie ha sempre avuto un ruolo fondamentale all’interno della società e della famiglia».

Cartoon Saloon è una delle ultime realtà che continuano a difendere e a sostenere l’animazione tradizionale.
«E questa è stata una delle ragioni che, in un primo momento, mi hanno spinto a unirmi allo studio. Cartoon Saloon è diventata un vero e proprio baluardo per l’animazione tradizionale 2D. E lo è diventata in una fase in cui tutti, più o meno, si spostavano verso il 3D e la CGI. Cartoon Saloon no, è rimasta fedele alla linea. E questo le ha permesso di avere una sua identità facilmente riconoscibile. I nostri budget sono molto piccoli rispetto a quelli che ci sono, per esempio, negli Stati Uniti. Eppure, giocando con lo stile grafico molto personale e intenso, più realistico rispetto alla tradizione disneyana, Cartoon Saloon è riuscita a creare progetti dall’identità molto forte. Nel corso del tempo, sono stati sviluppati prodotti di altissima qualità».
Perché ti sei spostata così presto all’estero per lavorare?
«In Italia, a cavallo dei primi anni Duemila, che è stato il momento in cui mi sono affacciata per la prima volta nel mondo dell’animazione, sono state passate leggi sul lavoro, tassazioni e politiche che hanno distrutto quasi completamente il panorama della piccola impresa. In questo modo, è stato fatto un danno generazionale enorme. E infatti siamo partiti in tanti per l’estero. Non ho i dati, ora, ma parliamo di centinaia di migliaia di persone nel corso degli anni. La mia generazione è andata via, praticamente. Partire era quasi inevitabile. Conosco alcune persone, per me dei veri e propri eroi, che sono rimaste, certo. Ma se il tuo obiettivo era lavorare sui lungometraggi, nel 2D, diciamo che non avevi molte possibilità. Se c’era un film ogni cinque anni, era già tanto. E non è fattibile per chi, per esempio, vuole avere una famiglia. Io avevo cominciato la mia carriera lavorando in piccoli studi, che negli anni Duemila sono stati letteralmente decimati».
Vista dall’esterno, come ti sembra che stia l’animazione italiana?
«La verità è che è tutta l’animazione a essere in crisi, perfino negli Stati Uniti e in Francia. Siamo tutti con l’acqua alla gola. Non è un bel momento, e non lo è per svariati motivi. In parte per le piattaforme streaming, in parte per la fase che stanno vivendo le sale; e poi pensa alla pandemia, agli scioperi degli ultimi anni, pensa anche all’intelligenza artificiale. Tutte queste cose, in Italia, si sommano a una situazione che era già molto sofferente. Nei primi anni Duemila, si è preferito comprare anziché produrre. E quindi è mancata una continuità industriale. Se la situazione era così all’epoca, puoi solo immaginare come sia oggi. Ci sono delle eccezioni, dei casi straordinari, ed è una cosa che voglio ribadire: ci sono registi e artisti che riescono a fare cose incredibili nonostante le mille difficoltà. Lavorano per anni sui progetti, in attesa dei finanziamenti, che vanno sbloccati o semplicemente riconosciuti. E queste persone riescono a fare delle cose veramente belle».
I cortometraggi, mi hai detto poco fa, sono un banco di prova. Il tuo prossimo passo, ora, qual è? Un lungometraggio?
«Non ti nascondo che mi piacerebbe. Per adesso però sono presa dalla campagna per gli Oscar. Nei pochi momenti liberi che ho, mi metto a scrivere: sto lavorando a due storie. Visto che faccio parte di Cartoon Saloon, poi, seguo moltissimi degli altri progetti che vengono sviluppati».
In che cosa consiste la campagna degli Oscar?
«In questo momento sto viaggiando molto, perché è importante dare un volto, dimostrare che c’è una persona, dietro il film. Stiamo andando nei festival dove ci invitano, e se non ci sono io c’è Nora, se non c’è Nora c’è Áine Mc Guinness, l’art director. Quest’anno i corti eleggibili per la shortlist degli Oscar sono stati centotredici, molti più del solito. E quindi è diventato fondamentale farsi vedere. Cartoon Saloon è già conosciuto, e questo ha indubbiamente aiutato. Io ho passato questi ultimi tre, quattro mesi in giro per gli Stati Uniti e per l’Europa: sono appena rientrata dalla Francia».
Quanto sono importanti i festival?
«I festival sono centrali. Poi ci sono gli incontri con la stampa e c’è la campagna online, sui social e su Youtube. Noi abbiamo la fortuna non solo di avere un team interno, che mi aiuta tantissimo quotidianamente, ma anche un team esterno: una piattaforma meravigliosa che si chiama The Animation Showcase, creata da Benoit Berthe Siward, che si occupa proprio di portare i film in giro. E poi c’è stata anche un’altra cosa che ci ha aiutato moltissimo».

Cosa?
«GKIDS, il distributore americano, ha proiettato Éiru subito prima de La piccola Amélie, il film di Maïlys Vallade e Liane-Cho Han, che per me è un film meraviglioso, un capolavoro. (In Italia arriverà il 1° gennaio con Lucky Red, ndr) Per me è stata una cosa bellissima, anche perché Liane-Cho Han è un mio caro amico. Ci conosciamo dal 2010. Non ci siamo visti per tantissimi anni, ed esserci ritrovati ora, lui con il suo primo lungometraggio, io con il mio primo cortometraggio, è stato veramente speciale. E l’uscita in sala ci ha dato molta visibilità. Ed è molto raro, per un cortometraggio, essere in sala. Se si cominciasse a fare più spesso, sarebbe meraviglioso. Ecco, sogno un mondo in cui i lungometraggi siano un po’ meno lunghi e un po’ meno costosi e ci sia modo di proiettare anche i cortometraggi. Avrebbe un impatto fortissimo sia sui registi che, ovviamente, sulle produzioni».
Le immagini presenti nell’articolo sono frame ufficiali di Éiru. La foto di Giovanna Ferrari è stata scattata da Andrzej Radka. Per saperne di più su Éiru, vi consiglio di andare sul sito ufficiale di Cartoon Saloon. Qui.