di Gianmaria Tammaro
Il senso della verità, la ricerca costante della stand-up comedy; il rapporto con la scrittura e con il processo creativo. L’ispirazione e la fede. E poi il meccanismo della risata, l’importanza di darsi completamente, fino in fondo, e il peso del confronto. L’intervista.
Quella che state per leggere non è la solita intervista. O almeno: non è un’intervista sull’ultima canzone uscita, sullo spettacolo dell’altro giorno o su quel tour che sta per partire. È un dialogo a due. Anzi, meglio: è una riflessione ad alta voce, ora messa per iscritto, di un artista, Ghemon. Non c’è nessun tentativo di dare risposte assolute. Ci sono spunti e considerazioni sulla comicità, sulla musica e sull’impegno della scrittura. E poi sulla creatività, sul senso dell’ispirazione e sul peso – a volte enorme, altre volte più leggero – della verità. Ghemon è, e cito dalla sua biografia, “un cantante, rapper e comico italiano”. È nato ad Avellino il 1° aprile del 1982, una data che, con il senno di poi, dice molto di più dell’uomo di qualunque profilo giornalistico.
So che in questi giorni sei in studio. Sei tornato alla musica?
«Io non l’ho mai abbandonata, la musica. Ma in questo momento sono concentrato su altre cose della mia vita che richiedono la mia attenzione. La musica, per me, è un po’ come andare in bicicletta. Spero di non dimenticare mai come si fa».
Tra queste cose a cui ti sei dedicato ultimamente c’è anche la stand-up comedy. Secondo te dove nasce la risata?
«Da manuale, ogni volta che c’è un ribaltamento di un’idea o di un pensiero che tutti hanno in mente può nascere una battuta. E questa definizione puoi applicarla anche ai concetti più scorretti o più scomodi. La comicità non si fa problemi; ti offre sempre una prospettiva per ridere di qualcosa. Pensa ai video su TikTok dove la gente cade o scivola: pure quella, a modo suo, è comicità».
La comicità può essere terapeutica?
«Per me sì, e questo è il motivo principale per cui ho deciso di farla. In un certo senso, la comicità si affianca alla musica. Anche quella è terapeutica, ma si concentra su un altro tipo di emozioni».
Per esempio?
«Io faccio una musica sempre abbastanza seria, malinconica, con una punta di speranza. Non faccio musica che fa ridere o da festa. Quando capita è un’eccezione».
E la comicità, invece?
«La comicità ti permette di parlare di argomenti particolarmente scomodi, che con la musica, forse, affronterei in modo diverso. Il tour di spettacoli, anche per come si è chiuso, è stato sicuramente terapeutico».
Quando si capisce che un monologo, un pezzo, è chiuso?
«In realtà, c’è sempre una parte mobile. Provi a chiuderlo, ad arrivare a una forma definitiva, ma qualcosa devi essere comunque pronto a modificarlo. La stand-up comedy non è teatro; la colloquialità impone una certa naturalezza. Poi per carità: le battute, per funzionare, devono rispettare una forma. Ma quando sei dal vivo, con un pubblico che ti guarda, devi adattarti al momento. Devi prendere in considerazione l’imprevedibilità. Una cosa che nella stand-up comedy c’è, perché cerca la risposta degli spettatori, con le loro risate; nella liturgia del teatro, invece, è quasi assente».
Qual è stato il pubblico più difficile?
«Ce ne sono stati almeno due o tre particolarmente complicati. Per esempio, c’è stato il pubblico delle località di mare, a settembre, quando tutti sono andati via e sono rimasti solo i residenti o quelli che hanno la seconda casa. L’età media è molto alta e il linguaggio della stand-up comedy non è quello a cui sono più abituati. Quando non ti ritorna quella risata tamburellante, che ti dà il ritmo, e si crea un certo silenzio, è veramente difficile. La comicità, in generale, vive di contesti».
Servono anche le serate che non vanno bene?
«Servono assolutamente; non bisogna evitarle».
Perché?
«Spesso penso che la fama possa essere quasi antitetica rispetto al senso di comunità e di condivisione. Per fare una cosa per bene, devi vivere ogni momento. Anche quelli più difficili. Non puoi fare solo teatri sold-out. Devi sviluppare una qualche resistenza. Altrimenti, appena qualcuno ti urla qualcosa che non ti piace, e mi è capitato, ti blocchi. E non va bene. Perché non sai reagire. Io sono contento anche se quelle serate, sul momento, mi hanno fatto male. Ora, almeno una volta a settimana, vado a provare i miei pezzi. In passato ignoravo certi meccanismi. Ovviamente, non le cerco queste serate. Non sono masochista. Però so che servono».
Che cosa ti avevano urlato che non ti piaceva?
«“Canta!”»
E tu come hai risposto?
«“Okay, papà”».
C’è un punto in comune tra la scrittura della musica e la scrittura di un pezzo comico?
«Ci sono diversi punti in comune, certo. Ma ci sono anche molti punti distintivi. Una canzone ha, vuoi o non vuoi, la musica e la musica finisce per essere il piano emotivo. E sia le parole che la melodia di una canzone hanno un potere. Se dici una frase molto intensa, senza musica, ha una forza. Se dici la stessa frase su una sequenza di note, ha un’altra forza. Nella stand-up, nella comicità, le parole sono nude. Di solito, non c’è l’accompagnamento della musica».
Anche nella stand-up, però, c’è la ricerca di un ritmo.
«Sicuramente è la parte in comune, quella che condividono. Per questo, spesso dico che la stand-up è molto simile al rap. In entrambi i casi, la parola è centrale. Con il rap puoi improvvisare, ti puoi guardare intorno, stare attento all’attualità; e lo stesso, in un certo senso, vale per la stand-up. Nel rap ci sono le punchline che sono le rime che devono tirare il cazzotto finale; se non vengono eseguite nel modo migliore, arriva un cazzotto fiacco, a mezza botta come si dice dalle nostre parti. Quindi il ritmo è molto importante. Fare stand-up non è facile; non basta scrivere due battute o raccontare la propria storia».
Cambia anche il tipo di solitudine che si prova mentre si lavora a una canzone o a un monologo?
«C’è una differenza, sì. Con la musica ho raggiunto un grado di esperienza che mi permette di immaginare, più o meno, come sarà una canzone finita. Anche da solo, anche senza pubblico. La solitudine di quando scrivi un pezzo comico, invece, finisce quando capisci che ti devi confrontare con gli altri. Con la stand-up, sei sempre alla ricerca di reazioni. Hai bisogno di esperienza, di prove tangibili. Nella canzone no, nella canzone puoi prescindere dall’altro. Io, per dirti, ho dei brani finiti, che non sono mai usciti, ma che sono comunque completi».
La prima persona a cui fa sentire una nuova canzone e la prima persona a cui fai sentire un nuovo pezzo coincidono?
«Sicuramente faccio sentire sempre tutto alla mia compagna, perché c’è una fiducia totale tra di noi. Ma le due cose, canzone e pezzo, non hanno per forza lo stesso pubblico. Ci sono amici a cui faccio ascoltare le mie canzoni e amici a cui faccio ascoltare i miei pezzi. Agli amici musicisti, per esempio, faccio sentire una battuta ma non una canzone. Proprio perché cerco una reazione genuina, non mediata dalla conoscenza e dai tecnicismi».
Chi è il musicista che ti fa ridere di più?
«DJ Shocca. È un nome leggendario nell’underground. È un mio amico e compagno; ci conosciamo da tantissimi anni. E lui mi fa sempre – sempre, giuro – ridere. Anche perché non è uno che cerca in tutti i modi di fare il simpatico».
Chi è, invece, il comico che potrebbe fare il musicista?
«Ultimamente ne ho beccato più di uno. Per esempio, c’è Filippo Spreafico, che ho sentito più di una volta cantare. Oppure c’è Francesco De Carlo».
Forma o contenuto?
«Questo è il dilemma della vita. Io sono sempre più per il contenuto. Però non posso dirti che la forma non sia importante. È importantissima».
Ci sono parole che non si possono dire, secondo te?
«No. Penso che le parole si possano pronunciare tutte. Magari si vuole pronunciare una parola per svuotarla di qualunque significato, per criticarla; magari si vuole pronunciare per esorcizzarla, perché qualcuno ce l’ha detta per offenderci e ne vogliamo parlare. Ciò che conta è il motivo per cui si dice una certa cosa. E, ovviamente, il contesto».
E questa cosa vale sia per la comicità che per la musica?
«Secondo me non si può vietare l’utilizzo di una parola, per quanto terribile. Il punto è che certi valori li esprime la società, non la musica. La musica è un riflesso dello stato della società. Se il rap è misogino, è perché la società è misogina. La consapevolezza deve arrivare da altro, non dalla musica. Deve arrivare dall’educazione. Altrimenti rischiamo di dover censurare qualunque cosa e qualunque forma d’arte».
L’arte non ha responsabilità?
«L'arte non deve essere caricata del compito di educare. L’arte, a volte, può anche diseducare. L’arte non ha un unico fine. Io me lo pongo il problema, certo. Ma non posso costringere gli altri a pensarla come me».
Per fare arte, e con arte intendo sia musica che stand-up, bisogna soffrire?
«Fa indubbiamente parte del pacchetto, ma non credo che sia indispensabile. O almeno, non voglio più credere che lo sia. Quando ero adolescente, ci pensavo. Mi ripetevo che se le cose andavano troppo bene non potevo fare arte, non potevo raggiungere un certo livello. Mi dicevo che se ero troppo stabile, troppo al sicuro, non potevo dire la mia verità. E non è così».
Com’è, invece?
«Io preferisco non soffrire, preferisco stare bene. E credo di aver scritto cose bellissime anche quando ho superato i periodi più neri della mia vita. Sono felice, ovviamente, se le mie canzoni possono aiutare gli altri. Serve un equilibrio, ecco cosa. Ed è difficile trovarlo. Però non si può evitare la sofferenza proprio come non si può credere che sia necessaria per il processo creativo».
Dove nasce l’ispirazione?
«A questo punto della mia vita, ti dico che si trova nelle piccole cose, nei dettagli. L’ispirazione non è una mano invisibile che ti deve benedire – una cosa che, detto tra me e te, ho pensato per tanto tempo. L’ispirazione è un’onda, arriva all’improvviso, ma tu devi essere pronto a coglierla, devi essere sulla tavola da surf; non basta aspettarla, devi allenare i tuoi sensi a riconoscerla. Io, l’ispirazione, la trovo ogni giorno. Senza grandi gesti».
L’ispirazione ha a che fare con la fede?
«In senso laico sì. Devi veramente credere che determinate cose possano succedere. È quasi dogmatica. E a volte, se perdi la fede in te stesso e in quello che ti circonda, perdi l’ispirazione. Ma non puoi rimanere in attesa per tutto il tempo, nella speranza di avere un segno. In questo, musica e comicità hanno molto in comune. Quando ho trovato il mio ritmo e la mia dimensione nella scrittura dei pezzi comici, ho capito che era quasi lo stesso processo che seguivo per una canzone. Certi giorni schiocchi le dita e ti arrivano dieci idee. Altri giorni, invece, devi insistere, cercare, devi prendere la materia grezza e smussarla, lavorarla, intagliarla. E non sarà meno bella della cosa che ti è arrivata subito. Per saperlo, per capirlo, ci vuole fede».
Tu hai mai avuto crisi di fede?
«Quotidianamente. È una cosa che mi succede spesso. E a me fa piacere anche raccontarlo. Di solito, ho l’impressione che dagli artisti non ci si aspetti così tanta verità. A volte, ho la sensazione che tutto quello che le persone vogliono sentire sia un sogno, qualcosa di lontano, quasi etereo, un obiettivo a cui ambire senza pensieri e dubbi. E invece questo lavoro è faticoso, è duro, e va detto. Io, almeno, lo dico».
L’Italia è un paese per artisti?
«Dipende. A volte no. E per carità: possiamo lottare all’infinito contro i mulini a vento, ma a un certo punto dovremo dare anche qualcosa di concreto e tangibile agli altri. A me piace dare un esempio contrario e dimostrare che si possono fare più cose senza cedere alle etichette o alle categorie».
Da ragazzo, eri quello divertente della compagnia, quello che provava a far ridere tutti?
«Sì. Non ero il solo, ma mi piaceva trovare lo spazio, la possibilità, per farlo. È una cosa che faccio anche adesso. Intendiamoci: molti comici che conosco sono timidi; non bisogna essere degli animatori per fare un monologo di stand-up».
Qual è quella cosa che ti fa sempre ridere?
«L’autoironia. Non solo la mia, intendiamoci. Anche quella degli altri. Quando sento un comico che rivolge lo sguardo verso sé stesso e si prende in giro, mi fa ridere. Durante le serate di stand-up, capita che delle battute non vadano bene. E puntualmente arriva il commento: “vabbe’, questa la cancelliamo”. E c’è sempre qualcuno che ride. L’autoironia genera empatia».
Dove si trova, per te, la verità?
«Nel racconto della realtà per com’è, senza pensare a tutto il resto. Era già faticoso per la generazione dei nostri genitori, figurati per noi. O per i più giovani. Con la stand-up dico cose che rappresentano la mia verità e provo a dire tutto, senza risparmiarmi. Perché il segreto sta proprio qui. Anche nelle cose di cui ti vergogni. Anzi, soprattutto in quelle. E per me la verità è fondamentale».
In un’intervista a Vanity Fair hai detto, e ti cito: se mi chiedessero di scegliere tra prendere un applauso e far ridere sempre, io risponderei far ridere sempre. Se invece dovessi scegliere tra una bugia che fa ridere e un verità che non fa ridere, cosa sceglieresti?
«Non penso di essere pronto a rispondere a questa domanda. (ride, ndr) La stand-up ha cambiato la mia percezione di molte cose. E quindi, forse, oggi preferirei dire una bugia che fa ridere».
L’illustrazione di copertina è stata realizzata da Enrico Pinto.